(foto Ansa)

l'anticipazione del libro

Spostare il consenso sulle riforme si può? La vera mission dell'éra Draghi

Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro

Con il suo operato, il premier sta facendo quello che ha già fatto da presidente della Bce con il quantitative easing: compra tempo scongiurando il collasso del paese. Ma cosa faremo di quel tempo dipende da noi


Pubblichiamo un estratto del libro “Molte riforme per nulla. Una controstoria economica della seconda repubblica”, scritto da Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro (edito da Marsilio).


 

 

Draghi ha ancora davanti a sé pochi mesi di legislatura per dare attuazione al Pnrr in un contesto politico sempre più complesso e di crescente litigiosità tra i partiti in vista delle prossime elezioni. Il 2022 è però un anno cruciale. Finora il governo ha raggiunto i cinquantuno obiettivi previsti dal piano, ottenendo così lo sblocco della prima tranche di finanziamenti (24,1 miliardi di euro). Ma si trattava in gran parte di target formali: approvazione di norme, costituzione di comitati o organismi tecnici e così via.

Alcuni di essi, inoltre, erano già previsti o hanno richiesto interventi limitati. Ben diversa è la situazione a partire dal 2022: l’erogazione della seconda e terza tranche di fondi (del valore, rispettivamente, di 24,1 e 21,8 miliardi) presuppone il raggiungimento di quarantacinque obiettivi entro il primo semestre e cinquantacinque entro il secondo. Si tratta, adesso, di realizzare investimenti e dare concreta attuazione a riforme complesse e divisive. Per fare solo qualche esempio, entro il 30 giugno 2022 dovranno essere adottati i provvedimenti attuativi delle semplificazioni del codice degli appalti, compiuti i primi passi per la digitalizzazione della Pa, assunti gli esperti per l’attuazione del Pnrr, completata la riforma delle concessioni pubbliche, aggiudicati gli appalti per l’esecuzione di varie opere ecc. Entro il 31 dicembre dovrà essere avviata la procedura di assunzione per il personale dei Tar, attuata la riforma del pubblico impiego, approvata la spending review per il 2023-2025.

 

Dovranno inoltre essere aggiudicati tutti gli appalti pubblici per i progetti di ricerca sull’idrogeno e attuate le semplificazioni per favorire l’efficienza energetica e contrastare il dissesto idrogeologico. Sono solo alcuni titoli degli obiettivi – ce ne sono altri, più o meno complessi –, ma danno l’idea dell’intenso lavoro che si dovrà svolgere in questi mesi cruciali e del fardello che il prossimo Parlamento e governo erediteranno. Né sarà sufficiente che legislativo ed esecutivo mantengano la direzione indicata dal Pnrr per raggiungere quegli obiettivi. Servirà la collaborazione delle regioni, degli enti locali e dei mille organismi che dovranno rilasciare autorizzazioni, sorvegliare l’esecuzione dei lavori, dirimere le controversie, erogare i fondi e sanzionare gli abusi. 

Se anche le riforme non fossero esplicitamente previste dagli accordi conclusi con la Commissione, esse sarebbero comunque necessarie per dare attuazione al vasto programma di investimenti. Da esso dipende infatti in buona misura la natura espansiva delle ultime manovre del governo (e dunque l’affidabilità delle previsioni di crescita).

Non si possono realizzare investimenti colossali senza semplificare la burocrazia e far funzionare la giustizia; non si può creare buona occupazione senza adeguare la disciplina del lavoro; non si possono rimettere in sesto le finanze pubbliche senza correggere fisco e pensioni; non si possono attirare investimenti nazionali ed esteri senza aprire i mercati, ripensare il ruolo dello Stato e abbandonare una politica industriale dirigista e interventista. E nulla di tutto ciò può poggiare sulle spalle di un solo uomo, per quanto straordinario. Draghi non è, non può essere e, comunque, non vuole certo essere l’Uomo della Provvidenza. Troppo spesso il paese ha confidato in questa scorciatoia per cavarsi d’impaccio: senza bisogno di tornare ai precedenti infausti della storia patria, la speranza che bastasse l’assertività di un leader a toglierci le castagne dal fuoco è una costante degli ultimi decenni, da Craxi a Berlusconi, da Monti a Renzi. Servono leadership e autorevolezza, non per imporre le riforme, bensì per spiegare al paese le politiche che il governo vuole realizzare e spostare l’opinione pubblica, convincendola della loro bontà.

I problemi che hanno finora impedito l’adozione o l’attuazione delle riforme, e che ne hanno mitigato l’efficacia, non sono pertanto da imputare agli uomini: è inutile vagheggiare il governo dei “competenti” e degli “onesti”, come già scriveva Benedetto Croce nel 1931. È alle regole che bisogna guardare, sia quelle scritte (il disegno istituzionale, le leggi elettorali, il rapporto tra l’amministrazione e i vertici politici…) sia quelle non scritte (i rapporti di forza, la natura del dibattito politico, la mancanza di una cultura dell’accountability…). Draghi sta svolgendo un’importante funzione, spostando il consenso in direzione delle riforme: questo può migliorare alcuni aspetti del funzionamento del paese – dalla Pa alla giustizia – e può garantire che si faccia un buon uso dei fondi europei, ossia soldi chiesti in prestito alle generazioni future. Ma non può sostituirsi all’intero ceto politico italiano, emendarlo dai suoi difetti, costringerlo ad affrontare una trasformazione che finora ha rifiutato.

Con il suo operato, il premier sta facendo (con grande difficoltà) quello che ha già fatto da presidente della Bce con il quantitative easing: compra tempo scongiurando il collasso del paese. Ma cosa faremo di quel tempo dipende da noi: dagli elettori, dai commentatori e dagli intellettuali che animano il dibattito pubblico, dalle donne e dagli uomini politici che stabiliscono l’agenda e offrono risposte più o meno evasive, più o meno credibili, più o meno articolate alle tante domande che vengono dalla popolazione.

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