Contro Putin c'è anche Topolino. La guerra in Ucraina accende il “brand activism”

Molte grandi imprese americane hanno interrotto le attività in Russia. E l’hanno fatto prendendo posizione e citando le sacre “mission” aziendali. Ma la sfida dei marchi nasce ai tempi di Trump. Rischi e opportunità di questa nuova comunicazione aziendale 

Era cominciato tutto con una star del football che si inginocchiava per protesta contro Donald Trump. E’ diventata un’onda che pochi anni dopo ha spinto le maggiori aziende del mondo ad alzarsi e andarsene, dopo essere rimaste a lungo inginocchiate di fronte a Vladimir Putin. Tra le tante cose che la guerra in Ucraina ci lascerà in eredità c’è anche la piena maturazione di un fenomeno, il brand activism, destinato a ridisegnare il rapporto che avremo in futuro con i marchi da acquistare o per i quali decidere di lavorare


McDonald’s, Apple, Mastercard, Visa, Airbnb: la lista di grandi imprese americane che hanno interrotto le attività in Russia è ormai sterminata. La novità però è che molti, moltissimi, non lo hanno fatto semplicemente nascondendosi dietro la scusa di doversi adeguare alle sanzioni internazionali. Lo hanno fatto alzando la voce, prendendo posizione, sventolando bandiere ucraine nelle pagine pubblicitarie e citando le sacre “mission” aziendali e i “valori” del brand come ragione del proprio operato. 


La crisi ucraina è diventata così una gigantesca conferma di quello che il guru mondiale del marketing, il novantenne Philip Kotler, aveva teorizzato due anni e mezzo fa, poco prima del Covid, sfidando le aziende sul terreno della reale consistenza del loro “purpose”, il tanto millantato scopo per cui si fa impresa. “Per le organizzazioni di oggi – aveva scritto nel bestseller Brand Activism (Hoepli) – non basta avere un purpose molto nobile. L’essere guidati da un purpose non significa nulla se comportamenti e visione non sono allineati. Ciò che conta ora è l’azione: come il vostro brand vive e agisce nel mondo reale. Sia l’azione sia la mancanza di azione sono segnali lanciati ai consumatori e alla società più ampia”.  

Se adesso, di fronte alla tragedia dell’Ucraina, si è vista così tanta rapidità di azione da parte del mondo del business americano, un po’ di merito è di Kotler e molto è di Colin Kaepernick e della Nike. Nel 2016, nel pieno della corsa alla Casa Bianca tra Trump e Hillary Clinton, l’allora quarterback dei San Francisco 49ers iniziò una personale forma di protesta contro la discriminazione dei neri: quando partiva l’inno nazionale, Colin inizialmente restava seduto mentre i compagni erano in piedi. Poi cominciò a inginocchiarsi. Un gesto semplice e potente, che ricordava la protesta silenziosa di Rosa Parks, il suo rifiuto nel 1955 di alzarsi dal posto a sedere su un autobus in Alabama per lasciarlo a un bianco. 
Altri atleti neri si sono poi uniti alla protesta che nel 2017, il primo anno di presidenza di Trump, ha assunto un forte connotato politico. Il presidente ha iniziato ad accusare i giocatori di football di mancanza di patriottismo e inginocchiarsi è diventato un gesto di sfida contro le politiche della Casa Bianca sull’integrazione razziale o sull’immigrazione. Un’azione che è andata a saldarsi con il crescente movimento Black Lives Matter, che protestava contro le violenze della polizia. Colin Kaepernick però dal 2017 non si è più inginocchiato in uno stadio a inizio partita, perché da allora è diventato un disoccupato: nessun allenatore voleva più quel “piantagrane”. Ed è questo che ha spinto Nike a sceglierlo come testimonial pubblicitario. 


Le logiche tradizionali della comunicazione aziendale avrebbero suggerito a una società dell’abbigliamento sportivo di tenersi alla larga da una controversia fortemente politicizzata. Ma Nike, come la Apple di Steve Jobs e alcuni altri brand diventati icone, non è mai stata un’azienda tradizionale, fin dai tempi in cui era guidata dal fondatore Phil Knight. Nel 2019 il faccione e la folta chioma di Kaepernick sono comparsi in tutto il mondo accompagnati dal logo della Nike e dalla frase: “Believe in something. Even if it means sacrificing everything” (Credi in qualcosa. Anche se significa sacrificare tutto). 


Nike ha così segnato un cambio di passo che avrà conseguenze di lungo termine e che è all’origine della scelta di tanti brand, oggi, di alzare la voce contro Putin. L’azienda americana sapeva di dover vendere le proprie scarpe da ginnastica anche ai repubblicani, se voleva far tornare i bilanci. Ma ha scelto un rischio scommettendo sul fatto di poter creare un’enorme riserva di valore reputazionale semplicemente dimostrandosi autentica. Il messaggio implicito ai clienti è stato: “Noi siamo questo, i nostri valori sono questi ed è anche per questi valori che riusciamo a garantirvi la qualità e creatività dei nostri prodotti. Anche se non siete d’accordo con noi, speriamo che apprezzerete la nostra sincerità”. E il rischio ha pagato: Nike ha venduto ancora più sneakers, anche ai repubblicani. Il fatturato 2019 dell’azienda è salito del 7 per cento, a 39 miliardi di dollari.


La pubblicità con Kaepernick è diventata il segnale visibile di un cambiamento nella comunicazione che va avanti da tempo. Le aziende si stanno trasformando in realtà che non intendono rivolgersi più solo al mercato (i consumatori, gli azionisti), ma alla società più in generale. Il management più illuminato già da qualche anno riflette non solo sulle indicazioni di Kotler, ma anche sulle suggestioni che lo scrittore anglo-americano Simon Sinek aveva sollevato fin dal 2019 nel suo “Start With Why”. Le aziende non devono chiedersi solo cosa fanno e come lo fanno: occorre partire dal “perché”. Il marketing non può essere soltanto un processo che prevede di investire soldi per produrre, promuovere i prodotti, venderli e difenderli dalla concorrenza. L’approccio più moderno tiene conto oggi più che in passato degli asset intangibili, primo tra tutti il marchio. Che cosa rappresenta quel logo? Che valori e identità si porta dietro? E quindi, in definitiva, perché si fa business?


Milton Friedman aveva una risposta netta a questi interrogativi: “La responsabilità sociale delle imprese è quella di incrementare i loro profitti”. Ma questi non sono più tempi da Friedman. Oggi i ceo e i board delle grandi imprese fanno i conti con gli indici di sostenibilità, con l’implementazione delle strategie Esg (environmental, social and corporate governance), con gli obiettivi di carbon neutrality. E con la provocazione che nel 2018 hanno ricevuto da Larry Fink, il capo di BlackRock, il più ricco fondo d’investimento al mondo: “E’ ora che mettiate il purpose prima del profitto”. Cioè: se volete che investiamo i nostri miliardi nelle vostre azioni, dovete dirci perché fate business, cosa vi muove, come potete migliorare la società nel suo complesso e non soltanto arricchire gli azionisti. Diteci cosa pensate del climate change e come contribuite, concretamente, a cercare di risolverlo. Diteci cosa pensate delle violazioni dei diritti umani nei paesi in cui operate o producete. O dei vostri piani per garantire un reale diversità, inclusione e parità di genere in azienda e nel top management. 


La comunicazione aziendale, che spesso respira l’aria che tira prima ancora che la produzione abbia messo a terra i propri processi, ha intercettato questo cambiamento e si è fatta più audace. Quando Kotler ha sistematizzato il concetto di brand activism nel 2019, in realtà i grandi marchi lo avevano già messo in pratica. 


Gli anni dell’Amministrazione Trump da questo punto di vista sono stati un gigantesco laboratorio. Le politiche della Casa Bianca sui temi dell’immigrazione hanno spinto per esempio Airbnb a lanciare campagne dove l’immagine dominante era quella di tanti volti multietnici, che mandavano un messaggio di accoglienza: nei nostri appartamenti ospitiamo chiunque. Non una pubblicità in senso stretto – non veniva “venduto” alcun prodotto – ma una presa di posizione da attivisti. Patagonia, brand mondiale dell’outdoor, ha proposto non più i propri zaini o il proprio abbigliamento tecnico, ma il proprio punto di vista sul futuro del pianeta, costruendo una comunicazione tutta mirata a informare sui rischi del riscaldamento globale. Tesla si è riposizionata dal proporsi come una società che produce e vende auto elettriche, a una realtà che si impegna a dare una risposta innovativa ai bisogni energetici del pianeta.


Il culmine di questa corsa a prendere posizione sui grandi temi della società lo si è visto nel Super Bowl 2021. L’evento-clou dello sport americano è anche, da sempre, una sorta di notte degli Oscar della pubblicità, il momento in cui tastare il polso alla narrazione d’impresa. Dopo l’anno terribile del Covid, che ha messo alla prova i brand per cercare di trovare il giusto tono di voce in mezzo alla morte e ai lockdown, l’appuntamento del febbraio 2021 era arrivato in un momento di altissima tensione politica negli Usa. Da pochi giorni Joe Biden si era insediato nello Studio Ovale e il Paese era ancora scosso dall’assalto a Capitol Hill da parte dei sostenitori di Trump. Le aziende si sono trovate di fronte all’interrogativo di cosa comunicare: parliamo di Covid, di politica o lasciamo perdere e ci concentriamo sul prodotto?


Molte hanno scelto l’ultima opzione, quella più sicura. Qualcuno ha mandato messaggi di ripresa dopo l’anno durissimo della pandemia. Ma lo spot sicuramente più interessante, vero simbolo dell’era del brand activism, lo ha tirato fuori Jeep. 


La casa automobilistica è riuscita a coinvolgere per la prima volta Bruce Springsteen in una campagna pubblicitaria e lo ha fatto con un puro storytelling all’americana. Un racconto che porta il Boss – ovviamente alla guida di una Jeep, ma la presenza dell’auto qui era discreta e non dichiarata – a visitare una modesta cappella di legno a Lebanon, in Kansas. Con la sua voce inconfondibile, Springsteen spiegava che quella chiesetta è costruita nel punto che è ritenuto l’esatto centro degli Stati Uniti continentali. Il messaggio era che per gli americani era venuto il momento di tornare a cercare un “centro”, un punto di incontro tra gli estremi, un luogo che ricordi a tutti ciò che unisce, rispetto a ciò che divide. E il titolo dello spot inneggiava ai Re-United States of America. Una narrazione puramente valoriale, anche fortemente politica, con nessun riferimento alle auto che Jeep deve vendere, nessuna comunicazione di prodotto.


Scegliere di scendere sul terreno del brand activism ha innegabilmente molti rischi per le aziende. La stessa Jeep lo ha sperimentato sulla propria pelle quando, all’indomani del Super Bowl, i giornali hanno tirato fuori una (vecchia) notizia su Bruce Springsteen fermato da un poliziotto per guida in stato di ebbrezza. Non il miglior testimonial per una casa automobilistica che predica la tolleranza zero sul consumo dell’alcool alla guida. Lo spot è stato ritirato per qualche giorno, il tempo di lasciar passare la tempesta. 
Ma quello della Jeep ricade nella casistica degli infortuni imparabili. Peggio, molto peggio, capita a chi tenta di cavalcare l’onda del brand activism senza aver fatto bene i compiti a casa. La prima regola di Kotler è che se vuoi agire, devi essere autentico. E quindi ciò che comunichi, il tema che decidi di cavalcare, deve essere stato pienamente digerito all’interno dell’azienda e trasformato in una chiara presa di posizione. Nike lo ha fatto con Colin Kaepernick. Altre società, come Pepsi Cola, hanno scoperto a loro spese che se alzi la voce, devi avere qualcosa da dire. 


Sul web, a distanza di anni, restano ancora le cicatrici che Pepsi si è autoinflitta con uno spot che presentava la modella Kendall Jenner come un’attivista dei diritti civili, che scende in piazza in una manifestazione e offre una lattina ai poliziotti. Nello spot c’erano apparentemente tutti gli ingredienti giusti: giovani belli e multietnici, poliziotti cattivi, manifestanti creativi. Ma per non irritare nessuno, Pepsi aveva inventato una manifestazione su non si sa cosa. Cartelli che inneggiavano al niente, un generico pacifismo senza riferimenti all’attualità. La reazione dei social e degli addetti ai lavori era stata devastante, costringendo la società a ritirare lo spot. 


Rischi a parte, ci sono opportunità enormi per le aziende che vogliono rivolgersi alla comunità nel suo insieme, e non solo ai consumatori. L’ultimo Trust Barometer di Edelmann, il rapporto che ogni anno misura i livelli della fiducia nel mondo, segnala che dopo gli anni del Covid ci si fida più delle imprese che non dei governi, delle Ong o dei media. Alle imprese viene assegnato un coefficiente di competenza ed etica più alto che alle altre realtà e i ceo si trovano di fronte alla richiesta di essere ingaggiati sempre di più sui temi d’attualità. 


E’ anche per questo che di fronte all’invasione dell’Ucraina abbiamo visto una insolita corsa internazionale a schierarsi con Kiev, a pubblicare pagine sui giornali con il logo aziendale colorato di giallo e azzurro, a lasciare la Russia dicendolo a chiare lettere. La Yale School of Management, che tiene una lista dei brand che stanno abbandonando Mosca, ha faticato a stare al passo con gli aggiornamenti. Dalle firme della moda a Google e Apple, chi se n’è andato lo ha fatto sempre con dichiarazioni ispirate ai valori aziendali, al purpose, ai “motivi per cui facciamo business”. 


“Vista l’invasione russa dell’Ucraina, avvenuta senza alcuna provocazione  – ha detto per esempio la Disney – e alla luce della tragica crisi umanitaria, sospendiamo l’uscita dei nostri film in Russia”. Se anche Topolino alza la voce, sta avvenendo qualcosa di epocale.