Effetto Putin

Ora Biden apre a Maduro per avere un po' di petrolio

Ugo Bertone

Nel weekend una delegazione di Washington si è recata a Caracas per trattare con il regime venezuelano la fine dell’embargo nei confronti del greggio. Una soluzione per gli Stati Uniti vantaggiosa sia da un punto di vista geopolitico che economico

Petrolio non olet, ammonisce il presidente americano Joe Biden in versione Vespasiano. Almeno di questo lo accusa il repubblicano Marco Rubio: “Piuttosto che permettere di estrarre più greggio in America – dice – il presidente vuol rimpiazzare il petrolio che compriamo da un dittatore sanguinario con quello di un altro non meno feroce”. 


L’accusa di Rubio, influente senatore della Florida, nasce da una notizia rivelata dal New York Times. Nel weekend una delegazione di Washington si è recata a Caracas per trattare con il regime di Nicolás Maduro la fine dell’embargo nei confronti del greggio del Venezuela. L’operazione rientra nella strategia Usa di allargare al petrolio le sanzioni contro l’export di Mosca (cosa che Biden ha confermato martedì), compensando i mancati acquisti dalla Russia con nuovi fornitori. Ma anche, non meno importante, frenare l’aumento del greggio che ha un notevole impatto sull’aumento dell’inflazione che pesa come un macigno sulle sorti democratiche in vista della campagna per le elezioni di mid term o per la riconferma alla Casa Bianca. A partire da una regola non scritta ma sempre rispettata: nessun presidente è stato rieletto quando il prezzo della benzina ha superato i 4 dollari al gallone. Di qui l’ostilità dei repubblicani, pur schierati a favore di sanzioni più pesanti contro il Cremlino. 

Ma l’amministrazione Usa ha comunque buone ragioni per difendere una svolta all’insegna della realpolitik. Riaprire al petrolio del Venezuela le porte sbarrate da Trump nel 2017 vorrebbe dire spezzare l’alleanza del paese sudamericano con Cina (il principale cliente di Caracas), Russia (la sponda finanziaria usata in questi anni per aggirare le sanzioni), e l’Iran (che fornisce alla compagnia di stato Pdvsa, il solvente necessario per alleggerire il greggio pesante dell’Orinoco). Dal punto di vista industriale presenta numerosi vantaggi: Chevron, l’unica compagnia Usa ancora presente nel paese, potrebbe far decollare la produzione dagli attuali 700 mila barili (un quarto della produzione degli anni Novanta, prima della rivoluzione di Chávez) a oltre 1,2 milioni, più del doppio dei 540 mila barili che Washington compra dalla Russia. E non manca il gradimento dei banchieri d’affari che da tempo spingono per la ristrutturazione del debito di Maduro, 60 miliardi di dollari, a fronte dei quali il dittatore venezuelano, piegato dall’emergenza economica, è disposto a concedere licenze per gas, petrolio e relative infrastrutture. 


L’affare, insomma, c’è: basta chiudere entrambi gli occhi. Solo negli ultimi giorni il Venezuela ha ceduto all’Ucraina il triste primato dell’esodo forzato dei profughi. Ma la tragedia di una terra benedetta dalle risorse naturali, non solo petrolio, arriva da ben più lontano. Negli ultimi sei anni il 20 per cento della popolazione ha lasciato il paese. “Un tempo era una migrazione mista – spiega al Paìs Claudia Vargas Ribas, sociologa dell’università di Caracas – composta da professionisti della classe media. Ma oggi partono i più poveri: nel 2018 nessuno immaginava di vedere persone che lasciavano il Venezuela a piedi, invece è successo. Non immaginavamo nemmeno che i venezuelani fossero capaci, per lasciare il paese, di sfidare le temperature altissime del deserto di Atacama in Cile o la foresta del Darien in Colombia o il Rio Grande”. L’ultima tappa prima di venire respinti il più delle volte alla frontiera Usa. Washington nel 2021 ha concesso una protezione temporanea ai migrati, ma la politica delle espulsioni continua. Difficile che se ne sia parlato a Caracas.

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