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Sul gas come Tafazzi

Per un rigassificatore, in Italia, ci vogliono 18 anni. Sull'energia, l'ideologia è come la geopolitica

Fabio Bogo

Il Tar di Palermo ha sconfessato il comune di Agrigento e sbloccato l’iter per la costruzione di un metanodotto, il cui progetto risale al 2004. Una storia emblematica che arriva da Porto Empedocle

Sono passati 18 anni, e la storia non si è ancora conclusa. Diciotto anni per vedere più vicina la realizzazione di un impianto che potrebbe dare più gas e una maggiore indipendenza energetica all’Italia, fattore che la crisi con la Russia ha reso ormai vitale per il futuro. Ma l’energia e la geopolitica corrono veloci, le infrastrutture italiane no. Il fatto: la scorsa settimana i giudici della seconda sezione del Tar di Palermo hanno sconfessato il comune di Agrigento e sbloccato l’iter per la costruzione del metanodotto a servizio del rigassificatore di Porto Empedocle (13 chilometri di tubo interrato), in provincia di Agrigento. Ce ne era bisogno, perché il progetto di Porto Empedocle risale nientemeno che al 2004, quando è presentata istanza alla regione Sicilia. Il procedimento autorizzativo parte quasi un anno dopo, ma è subito seguito dalla convocazione di una conferenza regionale dei servizi. Usciti da un primo collo di bottiglia si passa attraverso il secondo, la strettoia della Valutazione di Impatto Ambientale, dalla quale si esce tre anni dopo, nel settembre 2008, con la delibera di alcune prescrizioni. L’autorizzazione della Regione riesce infine ad arrivare: ma siamo già nell’ottobre 2009, cinque anni dopo la richiesta.

 

I lavori possono iniziare nel 2010, però il percorso si fa accidentato: inchieste giudiziarie, infiltrazioni criminali, ostacoli amministrativi: tutto si blocca di nuovo e nel 2016 l’Enel minaccia di abbandonare il progetto. Adesso i giudici riaprono la partita: è infondato il ricorso del comune di Agrigento su possibili rischi ambientali e archeologici legati allo scavo del metanodotto. Forse si parte. Con, appunto, diciotto anni di ritardo. Ma si può iniziare con il metanodotto. Paradossale: perché l’impianto ancora non c’è. La storia di Porto Empedocle è emblematica della diffidenza nei confronti delle infrastrutture e in particolare dei rigassificatori, gli impianti che permettono di immettere nella rete di metano il Gnl arrivato in nave dai paesi produttori non collegati alla rete internazionale diretta verso l’Europa. Un canale che arriva dal Qatar, da alcuni paesi africani, dagli Usa, e che bypassa la Russia, costituendo una strategica diversificazione.

 

Oggi l’Italia dispone di tre impianti di rigassificazione: a Rovigo, a Panigaglia in Liguria e Livorno. Dal Gnl il paese nel 2021 ha ottenuto gas capace di soddisfare quasi il 15 per cento del consumo interno. Ne servirebbero di più, ma non si fanno. Perché? A Portovesme e a Porto Torres in Sardegna, ad esempio, ne sono progettati due, un terzo è previsto ad Oristano. Sarebbero fondamentali per permettere all’isola di uscire dal suo (non splendido) isolamento. È l’unica regione italiana senza gas, la corrente arriva grazie alle centrali a carbone e per il riscaldamento e la cucina si usa il propano. Il governo con il recente piano energetico ha confermato che la strada è quella di portare con navi gasiere il Gnl da Livorno e Panigaglia, e trasferirlo sui terminali costieri sardi. Insorge il sindaco di Portoscuso (adiacente a Portovesme), che parla di obbligo per i sardi di “diventare energeticamente dipendenti dalla Toscana” e preconizza un enorme impatto ambientale sul mondo del lavoro, in conseguenza “delle chiusure delle centrali a carbone in minima parte sostituite con il gas che notoriamente occupa percentualmente pochissime persone”. Teniamoci il carbone, allora.

 

E a Gioia Tauro, in quel Sud che tanto avrebbe bisogno di energia e infrastrutture? Il rigassificatore è un fantasma. La cronologia: nel 2005 l’stanza al Mise, nel 2008 la Valutazione di Impatto Ambientale, nel 2009 la conferenza dei servizi, nel 2012 l’autorizzazione ai lavori. Dura poco: nel 2013 un decreto accetta la richiesta di sospensione dei lavori. Non se ne fa più niente. Il caso più eclatante resta però quello di Brindisi. L’impianto viene proposto nel 2002 da British Gas, che è pronta a investire 800 milioni di euro, con indotto occupazionale di 5mila posti di lavoro. Nelle intenzioni doveva essere gemello di un impianto analogo da realizzare nel Galles. Lì entrerà in funzione 5 anni dopo, quello di Brindisi viene cancellato nel 2012 quando British Gas si rende conto che non riuscirà mai ad uscire dalla ragnatela in cui è rimasta impigliata: dubbi ambientalisti, interessi elettorali delle amministrazioni locali, lentezza burocratica. E gli inglesi se ne vanno. 
   Occasione persa. Come poteva essere il Tap, che per fortuna non lo è stata, con buona pace di coloro che lo osteggiavano e che ancora oggi giustificano in maniera goffa e confusa le proprie posizioni. Ai quali va ricordato che due giorni fa, ed è la prima volta cha accade, dal Tap è passato più gas di quanto ne sia entrato dal mega terminale di Tarvisio, che ci fornisce quello di Putin.
Fabio Bogo

 

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