Foto LaPresse  

Mentre l'Occidente teme l'inflazione, Pechino taglia i tassi

Mariarosaria Marchesano

Tra dicembre e gennaio la People’s Bank of China ha abbassato gli interessi sia a medio sia a breve termine per la prima volta dall’aprile del 2020, quand’era appena scoppiata la pandemia. Non grandi tagli, ma abbastanza per attirare l’attenzione di gruppi d’investimento globali

Mentre le banche centrali delle economie occidentali si preparano, prima o dopo, ad alzare i tassi la Cina li sta abbassando. Perché? E quali saranno gli effetti di questa politica monetaria in controtendenza nell’anno della Tigre? Tra dicembre e gennaio la People’s Bank of China ha abbassato i tassi sia a medio sia a breve termine per la prima volta dall’aprile del 2020, quand’era appena scoppiata la pandemia. Non grandi tagli, ma abbastanza per attirare l’attenzione di gruppi d’investimento globali come Carmignac, Columbia Threadneedle, Comgest e Abrdn, i quali hanno abbandonato i toni scettici di quando la politica della “Prosperità comune” di Xi Jinping mieteva vittime eccellenti nel settore immobiliare e hi-tech e adesso spiegano che “non bisogna avere paura della Cina perché il paese potrebbe rivelarsi un rifugio nel momento in cui l’inflazione decolla in tutto il mondo”. 

 

In effetti il livello d’inflazione nell’Eurozona, cresciuto sopra le attese al 5,1 per cento, rende sempre più plausibile che la Bce guidata da Christine Lagarde, che si riunisce oggi, valuti di allineare le sue future mosse al nuovo contesto. Cosa che la Fed ha già annunciato di voler fare, avendo un indice dei prezzi di due o tre punti più alto. Ma mentre le due principali banche centrali cercano di distinguersi nell’ambito di una stretta monetaria, la Cina ha appena cominciato un ciclo di allentamento che offre agli investitori opportunità di guadagno. Eppure, colossi finanziari americani come BlackRock hanno pagato un prezzo per aver creduto nel progetto di sviluppo di Evergrande, messa in ginocchio per mano delle autorità statali. Nel complesso, però, molti grandi investitori che fino a poco tempo fa erano diventati diffidenti nei confronti della Cina si sono convinti che lo smantellamento del settore privato, che rappresenta il 60 per cento del pil del paese e impiega l’80 per cento della popolazione urbana, non sia l’obiettivo del governo di Pechino.

 

Così, la mossa di abbassare i tassi potrebbe essere la prova di una politica che agisce su un doppio binario: da un lato comprime la domanda interna, con il vantaggio di temere sotto controllo i prezzi, e dall’altro usa la leva dei tassi per attirare capitali e rafforzare il sistema finanziario del paese, che, a eccezione dello yuan in crescita sui mercati valutari, rimane poco influente nel contesto internazionale rispetto a quello degli Stati Uniti. “La Cina può permettersi una politica monetaria in controtendenza rispetto al resto del mondo perché ha un rischio di inflazione molto più contenuto e detiene in sostanza il controllo della supply chain”, dice al Foglio Alessandro Tentori, economista e capo degli investimenti di Axa Im, che prevede un crescente peso degli asset cinesi negli indici globali, da quelli azionari a quelli obbligazionari, anche in virtù di un indirizzo in questo senso da parte del governo di Xi Jinping. 

 

In Occidente, intanto, la corsa dei prezzi viene accelerata dalla grande e simultanea ripartenza economica che provoca continue interruzioni nelle catene di approvvigionamento produttivo (si vedano le code nei porti) e carenza di fonti energetiche, tant’è che si parla di inflazione da offerta più che da domanda. “L’industria cinese soffre molto meno rispetto a quella europea e americana per i colli di bottiglia e questo anche per le scelte fatte a suo tempo da Deng Xiaoping, quando la disponibilità di risorse naturali e di materie prime divenne una priorità di politica economica da perseguire. Se a questo si aggiunge il controllo che Pechino può esercitare sui costi di produzione, dal lavoro alla logistica, ecco che si spiega perché il paese ha meno inflazione”. 
Eppure, sono in molti a ritenere che sia stata la strategia “Covid zero” perseguita da Pechino a rallentare la ripresa economica cinese. Non è così? “Solo in parte perché questa strategia è stata comunque funzionale a tenere sotto controllo la domanda e i prezzi – prosegue Tentori – e ha aperto la strada all’allentamento di politica monetaria in controtendenza con l’Occidente”.

 

Di più su questi argomenti: