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La guerra dell'auto elettrica tra Asia, Stati Uniti ed Europa

Ugo Bertone

Il passaggio alle autovetture non inquinanti entro il 2035 comporterà un pesante taglio all’occupazione, e non stupisce che i costi verranno scaricati sui concorrenti più deboli

L’ultima a cedere è stata Toyota. Il colosso dell’auto giapponese ha annunciato la scossa: entro il 2030 usciranno dalle fabbriche del gruppo trenta modelli elettrici per 3,5 milioni di pezzi, ovvero un terzo della produzione con un balzo del 75 per cento sui piani precedenti. In questo modo Akyo Toyoda, l’erede dell’impero, ha deciso di rispondere all’offensiva di Volkswagen che investirà 89 miliardi di euro per strappare il primato nell’elettrico alla Tesla di Elon Musk. Una conversione forzata perché i giapponesi, i pionieri che hanno imposto il modello ibrido, non nascondono le loro riserve sul modello tutto elettrico, comunque difficile da imporre in Sud America o in Africa. 

Ma nell’attesa dell’idrogeno il mondo dell’auto, in piena emergenza ambientale, ha ormai scelto la strada dell’elettrico, pur costellata di sfide politiche, finanziarie e ancor prima sociali. Una gara a ostacoli che, ogni giorno, si arricchisce di nuove complicazioni. La sfida più vicina arriva dagli Stati Uniti. A giorni il Senato di Washington esaminerà il disegno di legge “Build Back Better” che, in un paragrafo malandrino, prevede che gli acquisti negli Stati Uniti di auto a batteria e ibride godano di un credito d’imposta di 12.500 dollari. Ma su questa cifra 4.500 dollari andranno solo a chi acquisterà un’auto prodotta in aziende Usa in cui siano presenti le strutture del sindacato. Altri 500 dollari del monte-sussidi andranno a chi acquisterà auto con batteria Made in Usa. Ovvero, dai bonus saranno escluse non solo le auto d’importazione (comprese quelle uscite dagli stabilimenti canadesi o messicani di proprietà di Gm e Ford) ma anche quelle prodotte dai giapponesi o dai tedeschi negli Stati del Sud. Un colpo basso contro cui è già insorta la lobby dell’auto tedesca che lo scorso anno ha assemblato negli States più di 740 mila vetture dando lavoro a 60 mila colletti blu che, per giunta, lo scorso anno a Chattanooga avevano votato contro l’ingresso del sindacato nello stabilimento Volkswagen.

 

Ma a Berlino, dove presto aprirà i battenti il “nemico” Tesla, la mossa un po’ goffa di Biden è stata interpretata come l’ennesimo segnale che la guerra “elettrica” è ormai cominciata e che l’Europa, priva di materie prime essenziali specie per le batterie e zavorrata da vincoli regolamentari e dall’organizzazione rigida del lavoro, rischia di avere la peggio non solo rispetto ai concorrenti americani, sostenuti da Wall Street, ma anche con gli asiatici vecchi e nuovi, dalla Cina al Vietnam. Di qui la risposta d’oltre Reno: dopo un aspro confronto con il sindacato, la Volkswagen, bandiera dello stato sociale oltre che orgoglio del Made in Germany, ha approvato un mega investimento che potrebbe assicurare la leadership all’auto tedesca anche ai tempi dell’elettrico. Parte dei costi saranno sostenuti dall’offerta in Borsa dei titoli Porsche che, in buona parte, verranno riacquistati dalla famiglia del fondatore. Una formula simile è stata adottata da Daimler: da una parte ci sarà il marchio Mercedes, da pochi giorni la prima casa al mondo a poter far viaggiare sulle strade un’auto a guida autonoma, dall’altra i Daimler Truck che, presto, viaggeranno anche a idrogeno. 

Stellantis, intanto, adotta il modello Apple: tempo cinque anni, promette Carlos Tavares, una ventina di miliardi di fatturato deriveranno dalla vendita di servizi alle auto connesse al gruppo così come oggi capita per i servizi venduti dagli iPhone. Il cliente, una volta acquistato il modello base (a prezzo scontato) potrà comprare o affittare optional oggi top secret in grado di potenziare le prestazioni e le possibilità di carico della vettura. Sembra fantascienza, ma è solo uno dei tanti frutti del connubio tra vecchia e new economy con cui si cerca di limitare i costi di una straordinaria e drammatica emergenza: solo in Europa, secondo uno studio di PricewaterhouseCooper, il passaggio all’elettrico entro il 2035 comporterà un pesante taglio all’occupazione: 500 mila posti di lavoro in meno, solo parzialmente compensati da 226 mila nuovi posti nelle batterie. Non stupisce che i Big, Biden in testa, vogliano scaricare i costi sui concorrenti più deboli. E l’Italia non fa certo parte dei competitor più robusti
 

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