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Il governo risponde al Foglio sull'Inpgi. Un botta e risposta

 Le alternative a questo salvataggio? Peggiori. Bisogna tutelare i giornalisti in attività. Lettera di Giavazzi e Genovese, risposta di Luciano Capone

Al direttore - Il Foglio ha dedicato grande attenzione e qualche severa critica alla norma della legge di bilancio per il 2022 con cui il governo Draghi ha disposto la chiusura della gestione principale dell’Inpgi (l’ente di previdenza dei giornalisti) e il trasferimento all’Inps dei suoi iscritti. In particolare, negli articoli di Luciano Capone del 20 e del 25 novembre scorsi sono formulate tre critiche al governo.

 

La prima: a differenza di quanto è avvenuto per alcune banche, per l’Inpgi si è fatto un salvataggio a carico esclusivo dello Stato (cioè un bail out) senza compartecipazione degli iscritti, cioè dei giornalisti, ai quali non è stato chiesto alcun sacrificio per la “gestione irresponsabile dell’Inpgi”. Invocare per l’Inpgi un’operazione di bail in, cioè di compartecipazione dei giornalisti al “salvataggio”, è un’argomentazione suggestiva, ma non è chiaro che cosa significhi in concreto. Innanzitutto, tranne in casi, rari e molto criticati, operazioni di bail in non sono avvenute neppure per i depositanti delle banche in dissesto. Inoltre l’Inpgi è una gestione previdenziale di “primo pilastro”, cioè non opzionale in quanto sostitutiva dell’assicurazione generale obbligatoria. Anche accogliendo l’analogia con le banche, c’è una differenza sostanziale: un risparmiatore può scegliere la banca cui affidare i propri risparmi sulla base ad esempio della sua solidità; i lavoratori invece non possono scegliere l’ente previdenziale di primo pilastro (sia esso l’Inps o una cassa privata), e quindi non possono essere puniti per un’eventuale scelta incauta. Il Foglio richiama a questo proposito il parere dell’Ufficio parlamentare di bilancio (UPB) che, in audizione alle Camere, ha segnalato il rischio di “premiare ex-post il moral-hazard” degli organi di gestione delle casse private. In realtà, se moral hazard c’è stato da parte degli amministratori dell’Inpgi, a porvi fine è stato questo governo con la chiusura della gestione: un’operazione che finora nessun altro governo aveva avuto il coraggio di fare, nonostante le ripetute segnalazioni della Commissione di vigilanza sui fondi pensione e della Corte dei Conti. È paradossale che l’inerzia dei precedenti governi e l’inefficacia del sistema di sorveglianza – giustamente segnalata dall’UPB nello stesso parere – vengano imputate oggi al governo che per primo ha disposto la chiusura di una gestione privata in dissesto.

 

Inoltre, la cassa che il governo oggi sopprime – la cosiddetta Inpgi 1 - è anche l’unica alla quale sono iscritti lavoratori dipendenti (alle altre casse private sono iscritti professionisti che svolgono attività autonome): una condizione che rende l’Inpgi un sostituto dell’Inps. È vero che in passato l’Inpgi ha offerto trattamenti generosi divenuti insostenibili per la costante perdita di iscritti avvenuta negli ultimi anni, ma questo è vero in generale anche per il suo analogo, l’Inps: neppure l’Inps è mai stato in equilibrio e ogni anno lo Stato deve ripianare il suo disavanzo. Chiedere una compartecipazione dei giornalisti al risanamento del deficit dell’Inpgi sarebbe come chiedere a lavoratori e pensionati di farsi carico del deficit dell’Inps, che invece ricade sulla fiscalità generale, cioè su tutti i cittadini. Ammesso che sia legittimo, non è chiaro come possa essere ragionevolmente stabilita la misura di questa compartecipazione.

 

Luciano Capone osserva anche che i giornalisti “non solo non vedranno toccate le loro generose prestazioni, ma saranno premiati con una pensione più alta dell’1% rispetto al previsto per i prossimi anni”. Il riferimento è alla delibera adottata dall’Inpgi poco prima dell’intervento del governo che avrebbe imposto per 5 anni un contributo straordinario dell’1% a carico di tutti i giornalisti iscritti alla cassa come concorso al rientro dal disavanzo. Se non fosse intervenuta la soppressione dell’ente, quel “sacrificio” sarebbe costato 10 milioni di euro all’anno ai giornalisti attivi e 5 milioni l’anno ai pensionati. Anche a voler vedere una ratio nella punizione dei giornalisti di oggi per i privilegi goduti in passato dai giornalisti di ieri, quel sacrificio non solo non sarebbe valso a scalfire il debito monstre di 250 milioni di euro accumulato dall’Istituto, ma avrebbe semmai aggravato l’iniquità del sistema, a tutto danno dei giovani.

 

Come accaduto per i contributi di solidarietà sulle pensioni già adottati in passato (pure dall’Inpgi), anche questo contributo avrebbe innescato un contenzioso costituzionale, con esito abbastanza scontato. La Corte Costituzionale ha infatti ripetutamente affermato che un simile contributo è legittimo solo se temporaneo e giustificato da ragioni contingenti straordinarie. Ma poiché un analogo prelievo sui pensionati Inpgi è stato già applicato in passato esso non può ritenersi temporaneo, né una crisi finanziaria strutturale come quella dell’Inpgi può considerarsi contingente.
Un contributo straordinario, cioè un prelievo forzoso, sarebbe invece legittimo per i giornalisti attivi, ma a sopportare il sacrificio maggiore sarebbero i giornalisti più giovani che non hanno tratto alcun beneficio dai privilegi passati, né prestazioni, né stipendi. Per essi, il concorso al risanamento dell’Inpgi si sarebbe tradotto in una contribuzione previdenziale più elevata di un punto percentuale rispetto a quella della generalità dei lavoratori (10,19% invece che 9,19%). In altre parole, a pagare il prezzo della correzione del bilancio Inpgi sarebbero stati i giovani.

 

La seconda critica: il trasferimento all’Inps non riguarda la cosiddetta Inpgi 2, cioè la gestione separata dei giornalisti autonomi, che potrà continuare ad essere amministrata dalla stessa “classe dirigente protagonista della gestione fallimentare dell’Inpgi”. Non è così. La norma che ha cancellato Inpgi 1 prevede una discontinuità anche per Inpgi 2. Infatti, non appena sarà adottato il nuovo statuto, gli iscritti a Inpgi 2 saranno chiamati a eleggere nuovi organi. Quanto alla sostenibilità futura della gestione, essa sarà valutata dai Ministeri vigilanti alla stregua delle altre casse: se qualcosa deve essere fatto è una riforma generale del sistema di vigilanza che impedisca in futuro ogni forma di moral-hazard. La presunzione di irresponsabilità applicata ai futuri amministratori, o addirittura all’intera categoria dei giornalisti che li elegge, è un criterio che esula da quelli che un governo può legittimamente adottare.

 

Infine, la terza obiezione: il governo ha impedito la nomina di un commissario straordinario dell’Istituto che avrebbe potuto adottare provvedimenti per riequilibrare la gestione. In realtà il commissariamento è previsto dalla legge solo per i casi in cui esistono le condizioni per un rientro del disavanzo. In questi casi, la costante perdita di base contributiva, provocata dalla crisi strutturale del sistema editoriale, non avrebbe consentito comunque di tenere in piedi la gestione principale dell’Inpgi. In queste condizioni, la nomina di un commissario avrebbe avuto solo l’effetto di lasciare per altri tre anni i giornalisti privi di qualunque certezza sulle loro pensioni e in balia degli umori dei governi pro tempore: una situazione di soggezione al governo che in una democrazia liberale deve ritenersi incompatibile con la libertà e l’indipendenza della professione giornalistica. Un rischio che il governo Draghi ha scongiurato – dopo anni di rinvii - con un’operazione ordinata e neutrale di passaggio all’Inps che prevede semplicemente: l’estensione dal 1° luglio 2022 ai giornalisti del sistema pensionistico applicato a tutti gli altri lavoratori (requisiti e regole di computo della pensione) e la garanzia dei diritti acquisiti a quella data (regole di accumulo della pensione), come avvenuto per l’assorbimento di altri regimi previdenziali speciali (Inpdai, Fondo elettrici, Fondo telefonici, Fondo trasporti).

Soprattutto, le critiche mosse alla norma del governo Draghi omettono di ricordare quale fosse l’unica alternativa in campo per il salvataggio dell’ente: il trasferimento forzoso all’Inpgi di intere platee di lavoratori già iscritti all’Inps (comunicatori, lavoratori della filiera editoriale, ecc.): un pessimo precedente per il sistema generale delle casse professionali. Una proposta, peraltro, che aveva già trovato sponde presso un precedente governo, che aveva stanziato per questo circa 180 milioni l’anno con una norma del luglio 2019.

 

In conclusione, la normativa vigente presenta sicuramente storture e iniquità. Basti pensare ai prepensionamenti con quota 87 (62 anni di età e 25 di contributi), che però sono previsti dalla legge e non dalle regole Inpgi; alla perdurante mancanza di una disciplina dell’equo compenso per il lavoro giornalistico; e non da ultimo all’incertezza che grava sul sistema dei contributi pubblici all’editoria (di cui beneficia anche il Foglio). È su questi temi che si potrebbe esercitare più utilmente il pungolo della critica e della proposta, a beneficio dell’azione di governo.
Simona Genovese e Francesco Giavazzi, consiglieri  del presidente del Consiglio
 

La risposta di Luciano Capone

 

Ringrazio la dott.ssa Genovese e il prof. Giavazzi per la risposta. Rispetto al punto primo, invocare per l’Inpgi una forma bail-in, ovvero di responsabilizzazione e compartecipazione al salvataggio, non è più di tanto un’ipotesi suggestiva ma ciò che stabilisce la legge con la norma che prevede la nomina di un commissario straordinario per riequilibrare il bilancio di un ente di previdenza obbligatoria in disavanzo economico-patrimoniale: il commissario avrebbe dovuto incidere, entro i margini previsti dalla legge, sui trattamenti generosi dei giornalisti prima di trasferirne il costo all’Inps e quindi agli altri contribuenti. Perché è vero che i lavoratori-giornalisti non devono essere puniti per le scelte incaute dell’Inpgi, ma non dovrebbero essere neppure premiati per quelle scelte incaute con pensioni più generose garantite dall’Inps e pagate dagli altri lavoratori. Il rischio di alimentare l’azzardo morale, che è stato poi giustamente evidenziato anche dall’Ufficio parlamentare di bilancio, non riguarda tanto gli amministratori dell’Inpgi (che in parte cessa di esistere) ma di tutte le altre casse pensionistiche private. Dopo il precedente dell’Inpgi, a quale cassa converrà tenere i conti a posto e un sistema sostenibile se sa che dopo arriverà l’Inps a garantire tutti i “diritti acquisiti”? Ciò che si imputa a questo governo non è di certo la mancata vigilanza del passato né l’aver chiuso una cassa in dissesto, ma le modalità di questa chiusura: la socializzazione dei privilegi pensionistici acquisiti. Anche il paragone con l’Inps è un po’ scivoloso, perché è vero che l’Inps è in disavanzo ma non tutti i disavanzi sono uguali: ciò che si chiede non è di far pagare a pensionati e lavoratori qualsiasi disavanzo, ma di adeguare i trattamenti di chi entra nel perimetro dell’istituto di previdenziale statale a quelli dell’Inps. L’Inpgi è passata al contributivo solo nel 2017, perché mai i contribuenti che già pagano i disavanzi dell’Inps dovrebbero pagare anche gli extra disavanzi dell’Inpgi dovuti a riforme fatte con 20 anni di ritardo?

 

Quanto al contributo straordinario dell’1%, è vero che non sarebbe stato sufficiente a scalfire l’enorme deficit dell’Inpgi (anche perché se fosse bastato non ci sarebbe stato bisogno del bail-out). Ma anche nel settore bancario, per stare al paragone, il bail-in non serve necessariamente a evitare il fallimento o la liquidazione, bensì a introdurre elementi di responsabilizzazione attraverso una compartecipazione alle perdite. E’ anche vero che il contributo di solidarietà sarebbe andato a carico non solo dei giornalisti in pensione ma anche di quelli in attività, ma è pur vero che il settore nel suo complesso è responsabile della gestione e delle ritardate riforme. Inoltre se è vero che la compartecipazione al risanamento del deficit dell’Inpgi avrebbe comportato per i giornalisti in attività una contribuzione previdenziale più elevata di un punto rispetto agli altri lavoratori, bisogna considerare che per molto tempo l’Inpgi ha chiesto, soprattutto ai datori di lavoro ma anche ai giornalisti, una contribuzione più bassa rispetto a ciò che veniva richiesto in altri settori (fino a 7-8 punti in meno rispetto all’Inps), proprio perché l’Inpgi è stato “generoso” sia nelle alte prestazioni concesse sia nelle basse contribuzioni richieste. Per giunta, nel caso dei giovani giornalisti l’extra contribuzione dell’1% sarebbe rientrata nel computo del montante contributivo e quindi “restituito” al momento del pensionamento (mentre per i pensionati il taglio sarebbe stato una perdita secca). In ogni caso, se caricare il contributo straordinario sui giovani giornalisti può presentare qualche elemento di iniquità, l’alternativa inevitabilmente scelta dal governo è stata quella di far pagare tutto agli altri contribuenti. Non mi pare un criterio più equo. Dal punto di vista giuridico è molto probabile che il contributo straordinario avrebbe prodotto un contenzioso davanti alla Corte Costituzionale, ma in questo caso non si sarebbe trattato da parte del governo di introdurre un nuovo contributo di solidarietà bensì di mantenere una decisione già approvata autonomamente dall’Inpgi: non si comprende perché all’incertezza di un giudizio della Consulta il governo abbia preferito la certezza di far pagare a tutti gli altri lavoratori, anziché ai giornalisti, anche quel piccolo e simbolico contributo di solidarietà.

 

Punto secondo. È vero che per l’Inpgi 2, la gestione separata di autonomi e precari, ci sarà l’elezione di un nuovo cda, ma non è certo una novità: il rinnovo è sempre avvenuto periodicamente. Il problema della sostenibilità della cassa non è tanto la mala gestio di una specifica amministrazione pro tempore, ma proprio la gestione autonoma da parte della categoria che si è dimostrata irresponsabile. Non si comprende, pertanto, perché lo stato si faccia carico degli enormi disavanzi della bad company Inpgi 1 (250 milioni di deficit l’anno che saranno 300 milioni tra 10 anni) e lasci a chi l’ha condotta al default i piccoli avanzi della good company Inpgi 2 (40 milioni). Dopo un bail-out così oneroso (2,5 miliardi fino al 2031) sarebbe stato auspicabile assorbire anche la gestione separata dell’Inpgi che ha uno sbocco naturale nella gestione separata dell’Inps. Non c’è alcuna presunzione di irresponsabilità rispetto ai futuri amministratori del’Inpgi 2, ma la semplice constatazione di ciò che è accaduto in passato applicata a una cassa che corre rischi maggiori proprio perché più piccola. E’ vero che l’Inpgi 2 è in attivo, ma il governo ha notato che l’avanzo è dovuto essenzialmente al fatto che per ora paga pochissime pensioni? E ha notato che su 60 milioni di ricavi l’Inpgi 2 ha, al netto delle prestazioni, costi di struttura pari a 10 milioni e che sono raddoppiati da un anno all’altro? Non è certo di conforto dire che per l’Inpgi 2 la sostenibilità “sarà valutata dai ministeri vigilanti alla stregua delle altre casse”, proprio perché la realtà ci ha mostrato un esempio eclatante di come la vigilanza (non) abbia funzionato. 
E’ condivisibile l’affermazione secondo cui “se qualcosa deve essere fatto è una riforma generale del sistema di vigilanza che impedisca in futuro ogni forma di moral-hazard” e lo è per due motivi: il primo è che la critica al governo è proprio quella di non aver preso il default dell’Inpgi come occasione per una riforma strutturale del sistema, conferendo poteri di vigilanza sulle casse pensionistiche a un’autorità indipendente (ad esempio la Covip); il secondo è che invocando la necessità di una riforma per impedire l’azzardo morale, la dott.ssa Genovese e il prof. Giavazzi smentiscono la loro affermazione iniziale secondo cui il governo avrebbe “posto fine” al rischio di moral hazard con questa modalità di chiusura dell’Inpgi.

 

Terzo punto. Si afferma che per il commissariamento era ormai troppo tardi, dato che quest’ultimo è previsto dalla legge solo qualora esistano condizioni per un rientro del disavanzo (e non è il caso dell’Inpgi, in conclamato dissesto). Se però ora è troppo tardi vuol dire che c’è stato un tempo in cui non lo era: qualche anno fa, cioè, un commissariamento avrebbe potuto aggiustare i conti e rendere meno pesante il disavanzo strutturale che ora sarà pagato da tutti i contribuenti. E se anche anni fa un commissario avesse certificato l’insostenibilità strutturale dell’Inpgi, la resa di conti sarebbe arrivata in anticipo e la collettività avrebbe risparmiato tempo e denari. Il fatto che un commissariamento non c’è mai stato, né allora né ora, conferma l’esigenza di una riforma della vigilanza affidando poteri di controllo a un’autorità indipendente, magari la Covip, visto che i governi che si sono succeduti non sono stati capaci di farlo in maniera adeguata. Rispetto alla considerazione che il commissariamento avrebbe lasciato “i giornalisti privi di qualunque certezza sulle loro pensioni e in balia degli umori dei governi pro tempore”, mi pare che la storia dell’Inpgi, le mancate riforme, la vigilanza distratta e infine il salvataggio generoso, mostrino uno scenario quasi opposto: non dico una soggezione, ma quantomeno una timidezza dei governi a intervenire sulle pensioni dei giornalisti.

 

Infine, è vero che il governo Conte aveva accolto la richiesta dell’Inpgi di “risolvere” la crisi dell’istituto con una soluzione di gran lunga peggiore, il regalo all’Inpgi di decine di migliaia di contribuenti dell’Inps, cosa che avrebbe continuato ad alimentare, sempre a spese della collettività, un sistema insostenibile e autoreferenziale. Questo l’ho personalmente scritto e denunciato (ad esempio sul Foglio del 26 giugno 2021) quando quella soluzione era in campo. Era un’alternativa pessima, sicuramente, ma non è corretto affermare che fosse l’unica alternativa possibile. Se il ruolo della stampa è quello di esercitare il pungolo della critica, è più efficace che lo faccia avendo come obiettivo il meglio più che il meno peggio.

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