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Il silenzio dei media sul fallimento dell'Inpgi lo si spiega con una parola: collusione

Luciano Capone

Quello della cassa previdenziale dei giornalisti non è solo il fallimento di una cassa previdenziale, ma di un settore che fa del suo tratto distintivo l’essere al servizio dei cittadini e invece si è comportato in maniera irresponsabile nei confronti della collettività

Dicembre 2011. “Le dichiarazioni del ministro Fornero sono demagogiche, infondate e provocatorie” dichiarò il presidente dell’Inpgi Andrea Camporese. A dargli man forte la Fnsi, il sindacato dei giornalisti: “L’attacco del ministro Fornero all’Inpgi preoccupa profondamente perché è immotivato, denigratorio, e tenta di colpire una cassa che ha i conti in ordine”.

Cosa aveva detto Elsa Fornero di così oltraggioso da meritare una reazione così feroce? Disse, banalmente, che “l’Inpgi ha problemi di sostenibilità”. Oggi, a dieci anni di distanza, l’Inpgi è fallita e scarica sull’Inps il suo carico miliardario di debiti futuri. E’ vero che in questi giorni ci sono state cose importanti di cui parlare, dal G20 al climate change, ma è quantomeno anomalo il silenzio tombale dei media sul disastroso fallimento della cassa previdenziale dei giornalisti, che invece hanno reagito in maniera così sonora nei confronti di chi ne metteva in dubbio la sostenibilità. Al fondo, probabilmente, c’è un certo pudore nell’esporre in piazza le ragioni di un dissesto così clamoroso: un disavanzo che è esploso incontrollato, dai 100 milioni di euro del 2017 ai 253 milioni del 2020, con un deficit annuo della sola gestione previdenziale superiore al 50 per cento.

La tendenza demografica e la crisi del settore sono sicuramente fattori che rendono lo squilibrio strutturale e inarrestabile: con meno di 15 mila lavoratori attivi (in calo) e quasi 10 mila pensionati (in aumento), il fallimento di un sistema a ripartizione è inevitabile. Ma è proprio la realtà che il settore ha sempre negato, rivendicando la propria autonomia, spesso attraverso una logora retorica sulla libertà di stampa e la Costituzione. Quella autonomia avrebbe richiesto negli ultimi decenni, per rispetto dei numeri e senso di responsabilità, un aggiustamento più drastico rispetto alle riforme pensionistiche adottate dal paese. E invece è accaduto il contrario. Editori e giornalisti hanno potuto scaricare i costi di un sistema collusivo prima sulle nuove generazioni di giornalisti e ora sulla collettività. I primi sfruttando a piene mani prepensionamenti e ammortizzatori sociali, i secondi usufruendo di trattamenti e criteri fuori dalla realtà: l’Inpgi ha continuato a vivere con il retributivo – peraltro con un rendimento del 30 per cento superiore a quello già generoso dell’Inps – per vent’anni oltre la riforma Dini e otto oltre la Fornero. I giornalisti sono passati al contributivo solo nel 2017, comunque preservando i “diritti acquisiti” e con criteri più vantaggiosi del resto della popolazione.

 

“Smentiti i profeti di sventura – disse nel 2017 la presidente  Marina Macelloni – l’Inpgi non fallirà, non sarà commissariato, né tantomeno confluirà nell’Inps”. Dopo quattro anni ecco il default con il relativo passaggio all’Inps. Poco male. Perché non solo i giornalisti si sono attribuiti, in nome dell’autonomia, per 20 anni un sistema privilegiato, ma ora il governo Draghi premia quella irresponsabilità garantendola anche per il futuro e accollandone i costi sugli altri contribuenti, che invece hanno subìto le varie riforme pensionistiche. Quello dell’Inpgi non è solo il fallimento di una cassa previdenziale, ma di un settore che fa del suo tratto distintivo l’essere al servizio dei cittadini e invece si è comportato in maniera irresponsabile nei confronti della collettività. Il silenzio sull’Inpgi è  figlio dell’imbarazzo, ma va superato. Giornalisti ed editori  hanno un doppio dovere, per trasparenza nei confronti dei cittadini e dei contribuenti, di parlarne pubblicamente. 

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali