Maro Draghi e Ursula von der Leyen (LaPresse)

Le prospettive

Efficienza, non assistenza. La svolta sul sud con il Pnrr

Stefano Cingolani

Combattere la morsa giustizialista e l’impronta statalista per crescere. Un saggio e un obiettivo: 5 per cento

Il Piano nazionale di ripresa e resilienza dedica al Mezzogiorno un occhio di riguardo. Lo ha sottolineato Mario Draghi già nel marzo scorso: “Il processo di convergenza tra Mezzogiorno e centro-nord è fermo da decenni – ha ricordato il capo del governo –. Anzi, dagli inizi degli anni 70 a oggi è grandemente peggiorato. Il prodotto per persona nel sud è passato dal 65 per cento del centro-nord al 55 per cento. Negli ultimi anni, c’è stato un forte calo negli investimenti pubblici, che ha colpito il sud ovviamente insieme al resto del paese. Tra il 2008 e il 2018, la spesa pubblica per investimenti nel Mezzogiorno si è infatti più che dimezzata ed è passata da 21 miliardi a poco più di dieci. Per la prima volta da tempo, abbiamo l’occasione di aumentare la spesa in infrastrutture fisiche e digitali, nelle fonti di energia sostenibili”. Le risorse di Next Generation Eu si aggiungono a ulteriori programmi europei e ai fondi per la coesione, che mettono a disposizione altri 96 miliardi per il sud nei prossimi anni. “Ma abbiamo imparato che tante risorse non portano necessariamente alla ripartenza del Mezzogiorno”, ha ammonito Draghi. A fronte di 47,3 miliardi di euro programmati nel Fondo per lo Sviluppo e la Coesione dal 2014 al 2020, alla fine dello scorso anno erano stati spesi poco più di tre miliardi – il 6,7 per cento. Nel 2017, in Italia erano state avviate ma non completate 647 opere pubbliche. In oltre due terzi dei casi, non si era nemmeno arrivati alla metà. Il 70 per cento di queste opere non completate era localizzato al sud, per un valore di due miliardi.


 

Il Mezzogiorno riparte grazie all’Europa? Forse, ma non riparte davvero se non grazie a se stesso. Le energie ci sono, al di là di tutti i pregiudizi, però restano inespresse. Di chi è la colpa? Del carattere, come scrive Mario Fabbri nel suo libro (Il carattere meridionale, dalle origini evolutive alle conseguenze economiche, La fabbrica delle illusioni editrice)? Della storia, della politica, della geografia persino, che a loro volta hanno contribuito a formarlo? Da quando la questione meridionale è diventata questione nazionale, cioè da un paio di secoli con alti e bassi, si sono moltiplicate e combattute le interpretazioni. Chi crede che Benedetto Croce abbia ancora ragione, insiste sulla mancanza di una borghesia meridionale. Schiacciati tra i baroni normanni e una monarchia parassitaria (se si escludono Roberto d’Angiò e Alfonso d’Aragona), soffocate le aspirazioni comunali, bloccando così quella civiltà dei comuni che ha plasmato l’Italia da Firenze a Milano, i borghesi con le loro arti e i loro mestieri sono rimasti marginali. E soprattutto dipendenti. Proprio la dipendenza resta una caratteristica meridionale. E non solo meridionale.

 

Qual è la capitale del Mezzogiorno? Una corrente di pensiero sostiene che non esiste perché il Mezzogiorno è una espressione geografica, tra Puglia e Calabria ci sono più differenze che chilometri di confine. Non parliamo delle isole. Se andiamo alla ricerca delle caratteristiche socio-economiche (e delle loro ricadute politiche) dovremmo concludere che la vera capitale è Roma, non Napoli che è stata anche una città industriale e, allargando lo sguardo all’intera area metropolitana, conserva ancora una sua capacità manifatturiera. Può, dunque, la spesa pubblica, sia pure ben gestita come vorrebbe Draghi, diventare il volano di uno sviluppo non solo sostenibile, ma auto-sostenuto? È una domanda retorica a risposta negativa che apre una finestra anche sui limiti intrinseci di un Pnrr che dedica poco, troppo poco (in termini di risorse e di energie politico-intellettuali) alla manifattura.

 

Infrastrutture (soprattutto ferroviarie) ed energia (soprattutto rinnovabile) sono gli assi portanti. Viene rifinanziato il progetto Industria 4.0 con 18 miliardi di euro, che sono meno di un decimo rispetto all’entità globale del piano, mentre l’industria manifatturiera contribuisce per circa un quarto al prodotto lordo annuo (anche di più se estendiamo la categoria al terziario industriale). Questo è vero su scala nazionale. Nel sud d’Italia, il contributo resta inferiore e minori diventano anche gli incentivi, i quali sono sì spesa pubblica, ma direttamente orientata a investimenti produttivi. Si è fatta strada una convinzione perniciosa che attraversa un po’ tutti i partiti, cioè che il futuro dell’Italia sia nel turismo, in particolare il turismo nazionale. Oggi contribuisce al pil per meno del 15 per cento, senza dubbio troppo poco, ma di quanto realisticamente potrebbe ancora crescere? Cinque punti? Forse. A meno che non si voglia far credere che l’Italia possa diventare un parco divertimenti per i ricchi europei del nord, e il Mezzogiorno la Florida d’Europa. Sono paradossi? Non tanto, basta ripercorrere la vicenda dell’Ilva di Taranto e rileggere le dichiarazioni di autorevoli esponenti politici (non solo pentastellati) o di alcuni magistrati: chiudiamo l’acciaieria con i suoi fumi infernali e al suo posto creiamo un giardino delle delizie. Fobie industriali a parte, è chiaro che dedicare la maggior parte delle risorse disponibili alle infrastrutture, senza accompagnarle con interventi produttivi, finisce per diventare organico alla “floridizzazione” del sud. 

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