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il foglio del weekend

Ritorno alle tasse. Una delle poche lezioni che può impartire l'Italia

Stefano Cingolani

Non servono per la transizione energetica, e nemmeno costruiranno una società più equa. Ma c'è già chi le invoca come la soluzione

Jane Fraser ha rotto il soffitto di cristallo e che soffitto, più che cristallo avevano usato il piombo in una delle più grandi banche del mondo. Stiamo parlando di Citigroup, la maggiore istituzione finanziaria americana, la prima delle Big Four nate dalla grande crisi finanziaria del 2008-2010, cioè JP Morgan Chase, Bank of America, Wells Fargo e appunto Citi, che insieme a tutti gli altri primati adesso ne detiene uno tutto speciale: farsi guidare da una donna. E’ la prima volta e non era mai successo in tutta Wall Street. Una lunga carriera alla McKinsey, la manager scozzese ha portato aria fresca, aria europea e una sensibilità particolare: “Noi ci siamo già mossi, nel 2050 non un centesimo andrà a chi contribuisce a riscaldare il pianeta”, dichiara al Wall Street Journal, mentre a Glasgow è in corso il summit dell’Onu. “Adesso tocca ai governi, altrimenti sarà difficile per noi tenere fede agli impegni”. E i governi, quelli ricchi dell’occidente per essere precisi, mettono mano all’attrezzo che più conoscono: la leva fiscale. 

Tremate, tremate le tasse son tornate; demonizzate nell’èra liberista, nell’anno cinque dell’èra populista sono diventate la salvezza dell’umanità. Non ci credete? E allora perché viene introdotta la carbon tax? Non solo. Il governo conservatore britannico spende, spande e tassa, mentre Margaret Thatcher si rigira nella tomba. La svolta è partita dalla patria di Ronald Reagan, è vero che tassare i ricchi è il mantra di un presidente democratico come Joe Biden, messo sotto scacco dalla sinistra, tuttavia nessuno prima di lui, escluso Jimmy Carter, aveva osato tanto. No taxation without representation, grido di  battaglia dei coloni americani contro l’oppressione inglese, era la speranza dei sudditi che diventano cittadini. Adesso che la democrazia liberale è sotto assedio, sono proprio i rappresentati a spingere i loro rappresentanti sulla strada delle gabelle e dei gabellieri. Come mai?

L’Economist scrive di un cambio culturale che dalla sinistra populista arriva a una destra non più liberale, ma apertamente conservatrice, la quale abbandona Locke e torna a Hobbes, al big state, al Leviatano che si alimenta con le tasse; insomma, un balzo indietro di sessant’anni. Rishi Sunak, il cancelliere dello scacchiere, interpreta questo nuovo senso comune e fa di necessità virtù. Così mette nella legge di Bilancio per il 2022 il più forte aumento fiscale dal 1993 (circa 12 miliardi di sterline l’anno) convinto che la crescita consentirà di ammortizzarne l’impatto sui redditi individuali, mentre l’espansione dell’intervento pubblico e del welfare state farà da contraltare alla stretta sui contribuenti. L’Ufficio per la responsabilità del Bilancio, cane da guardia della politica fiscale, calcola che la spesa pubblica passerà dal 39,8 per cento del prodotto lordo prima della pandemia al 41,6 per cento per il 2026. Non sembra molto se paragonato all’Italia, che supera già il 50,6 per cento, ma si deve tener conto che è la quota più alta dal 1973,  l’anno fatale della crisi petrolifera che aprì a Harold Wilson la porta del baratro per i laburisti. Aumentano anche le imposte sulle società, il che irrita tutto il mondo degli affari. Il bello è che Boris Johnson aveva detto niente tasse, ma i costi della sanità per colpa della pandemia si sono gonfiati oltre ogni previsione e la Brexit ha reso tutto più difficile. Non è chiaro se davvero i conservatori britannici torneranno per sempre all’antico, certo è che hanno sdoganato la leva fiscale. Loro da destra, Joe Biden da sinistra, se ci si passa la semplificazione, ma è tutto uno spendi, spandi e tosa i contribuenti, o per rilanciare lo stato provvidenza o per combattere il riscaldamento climatico. 

Il monito di Citigroup

Il presidente americano, prima di partire per il G20 romano, ha sollevato il sipario su un progetto di rafforzamento del welfare e di lotta al cambiamento climatico da 1.850 miliardi di dollari, contro i 3.500 miliardi inizialmente proposti. Biden lo ha definito un “compromesso”, dove nessuno ottiene tutto ciò che ha chiesto. Il piano stanzia 550 miliardi contro l’effetto serra, fondi dedicati anzitutto (320 miliardi) a incentivi per veicoli elettrici e per la transizione energetica da petrolio, gas e carbone verso le fonti rinnovabili. Sul fronte sociale sopravvivono l’asilo nido universale e sussidi all’infanzia per un totale di 600 miliardi di dollari. Scompaiono invece i programmi federali per il congedo familiare pagato, la riduzione dei costi dei farmaci e i due anni di college pubblico di base gratuito per gli studenti. Il presidente lo ha definito un “investimento storico nel paese, fiscalmente responsabile e interamente pagato”. Come? E da chi? Da nuove imposte per grandi aziende e redditi multimilionari. Le risorse sono in particolare rastrellate da una minimun tax su aziende con profitti di oltre il miliardo l’anno. E con una sovrattassa del 5 per cento su redditi personali oltre i 10 milioni di dollari, maggiorata di un altro 3 per cento oltre i 25 milioni. Nessun aumento generalizzato invece delle aliquote. Il partito delle tasse è vasto: non solo il socialista Bernie Sanders, non solo Paul Krugman e Larry Summers, ma anche molti liberal. Bill Gates si lamenta di pagare troppo poco: “Sono per un sistema fiscale in cui, se hai più soldi, devi pagare una percentuale più alta di tasse. Dovremmo spostare una maggior parte del carico fiscale sul capitale, piuttosto che sul lavoro”. In America un sondaggio di Reuters/Ipsos ha mostrato come il 64 per cento dei cittadini è a favore di questa soluzione. “Se non ora quando?”, si è chiesto Jim Brumby, economista della Banca mondiale, ricordando come un prelievo sulle grandi ricchezze consentirebbe di aggredire molti degli squilibri che in questo momento affliggono l’economia globale. 

Se questa è la tendenza, l’Italia naviga controcorrente. Mario Draghi è stato chiaro: “E’ il momento di dare non di prendere”, e ha gelato Enrico Letta. Il segretario del Pd aveva rilanciato l’aumento della imposta di successione storico cavallo di battaglia keynesiano, con un retropensiero, dicono gli avversari, cioè che spunti dal cilindro la patrimoniale, cominciando dalla casa; in fondo la revisione del catasto porta dritti dritti in questa direzione nonostante gli impegni in senso contrario ripetuti dal governo. Il Pd vorrebbe aumentare progressivamente l’aliquota sui patrimoni ereditati che superano il milione di euro per applicare l’aliquota massima a quelli oltre i 5 milioni di euro. La tassa di successione in Italia resterebbe comunque tra le più basse della zona euro (ora ha un’aliquota massima del 4 per cento) sempre lontana da quella che si pagava fino alla riforma introdotta dal governo Berlusconi nel 2001. 

La Cgil ha un’altra ricetta: ricavare dieci miliardi di euro con un’imposta patrimoniale aggiuntiva sulle famiglie italiane che dispongono di una ricchezza finanziaria netta superiore a 350 mila euro. In base ai calcoli del sindacato, i nuclei familiari con queste caratteristiche sono un milione e duecentomila, il 5 per cento del totale. Queste famiglie dovrebbero dunque fronteggiare un esborso medio annuo aggiuntivo di 8.500 euro. Utilizzando le risorse per investimenti nei settori dei beni sociali, ambientali e culturali si creerebbero ben 740 mila posti di lavoro. 

Un anno fa, mentre si discuteva la legge di Bilancio per il 2021, dal Pd e da Leu è sbucato un emendamento per tassare i redditi più alti. Secondo alcune stime (vedi lavoce.info) nella classe tra 500 mila e un 1 milione di euro ricade il 3,4 per cento della popolazione, che detiene il 13,8 per cento della ricchezza nazionale, nel seconda classe – compresa tra 1 e 5 milioni – c’è l’1,6 per cento, che possiede il 16,8 per cento della ricchezza, nella terza classe – compresa tra 5 e 50 milioni – c’è lo 0,1 per cento che possiede il 6,3 per cento della ricchezza, nella classe tra 50 milioni e un miliardo, lo 0,01 per cento detiene il 4, 7  per cento della ricchezza, mentre quelli sopra il miliardo hanno l’1,7 per cento. Complessivamente, il 5,1 per cento più ricco della popolazione detiene il 43 per cento della ricchezza nazionale, per un totale di 3.742 miliardi. Applicando le aliquote proposte, si ottiene il gettito derivante da ogni classe: quella più bassa pagherebbe 683 milioni, la seconda 5,3 miliardi, la terza 5,1 miliardi, la quarta 8,1 miliardi e la quinta 4,3 miliardi. Sommando, si arriva a 23,5 miliardi di euro. Cioè lo stesso risultato raggiunto in altro modo. Non è davvero una gran cosa. Non lo è nemmeno una imposta sulle grandi fortune alla francese, cioè sulle famiglie con patrimonio superiore a 800mila euro con aliquota marginale tra lo 0,5  e l’1,5 per cento: secondo tutti i calcoli finora fatti potrebbe dare tra i 4 e i 6 miliardi appena. In Italia le patrimoniali – immobiliari, finanziarie, successioni, registro ecc. – già gravano sui cittadini per quasi tre punti di pil. Aumentarle finisce per essere controproducente. 

La priorità del governo Draghi è alleggerire l’onere sul lavoro. In che modo non è ancora chiaro, ma la legge di Bilancio prevede un intervento sull’Irpef da 8 miliardi di euro  nel 2022. Bisognerà capire come funzionerà il meccanismo delle detrazioni e delle deduzioni. In ogni caso sembra chiaro che stringere la tagliola del fisco attorno ai redditi più elevati non è all’ordine del giorno in Italia. E ciò vale anche per la ricchezza patrimoniale. Il calcolo è semplice: il gioco non vale la candela. Il grande gettito fiscale in ogni paese avanzato viene dalla classe media, in Italia sono più colpiti i lavoratori dipendenti i quali non possono sfuggire alla tagliola, soprattutto quelli che dichiarano un reddito medio-alto. I sostenitori della patrimoniale, di fronte all’obiezione che il gettito aggiuntivo sarebbe esiguo (oltre gli 11 miliardi che già gravano sulla ricchezza mobile e immobile) ribattono che è una questione di equità. Tuttavia oggi in Italia (ma anche nella maggior parte dei paesi avanzati) l’equità fiscale, se vogliamo che riguardi la maggioranza dei cittadini, va in un senso diverso a quello prevalente nel circo populista: dare un po’ più a molti non togliere qualcosa a pochi.

Perché si è tornati a parlare di tasse

Torniamo alla rivoluzione ecologica pagata con le imposte. Quanto potrà contribuire la carbon tax? Il World Economic Forum, il fortilizio di Davos spauracchio dei sovranisti di destra e di sinistra, stima che la tassa potrà ridurre l’inquinamento mondiale del 12 per cento. E il resto? Quante risorse possono ancora mettere in campo i regimi democratici prima di scatenare la rivolta dei tartassati? Se si supera una certa soglia, tutti i peana sulle imposte, comprese quelle per i ricchi, diventeranno maledizioni. E i regimi autoritari? O sono in perenne rischio di penuria perché dipendenti da una risorsa naturale prevalente (il gas in Russia, il petrolio per l’Arabia Saudita) o basano il loro potere su una promessa di sviluppo forte e continuo (la Cina). In entrambi i casi i margini di manovra si riducono. Affidare ai governi il compito principale di pagare e guidare la grande transizione rischia di diventare una grande illusione.

Mark Carney, il canadese già governatore della Banca d’Inghilterra, ora inviato dell’Onu, guida la coalizione delle imprese finanziarie impegnate a contrastare il climate change: intervenendo al summit Cop26 ha confermato che 130 mila miliardi di dollari saranno erogati per raggiungere le zero emissioni entro il 2050 dalla Glasgow Financial Alliance for Net Zero (Gfanz) alla quale aderiscono 450 istituzioni finanziarie in 45 paesi, in cima alle quali Citigroup e BlackRock di Larry Flink il primo ad aver impresso un cambio di marcia. “Ora abbiamo tutto il denaro che ci serve”, ha proclamato il banchiere autore di un libro diventato best seller (“Il valore e i valori. Un manifesto per ripensare il nostro presente”, Mondadori). D’accordo, nel frattempo molte banche continueranno a finanziare gas, petrolio e anche carbone, ma ridurranno progressivamente i flussi. Non è solo un modo per lavarsi la coscienza, piuttosto si tratta di un approccio realistico. Sarà allora la turbofinanza, diventata ecofinanza, a tirarci fuori dai pasticci? Gli investimenti in attività sostenibili nel 2020 erano circa 35 mila miliardi di dollari, circa la metà sono americani. Per capirci l’intero prodotto lordo annuo degli Stati Uniti arriva a 20 mila miliardi, il debito pubblico viaggia verso i 30 mila miliardi, il tetto è stato innalzato di 480 miliardi di dollari per evitare il default. E stiamo parlando del regno del dollaro e dello stato che batte la moneta ancor oggi dominante. Anche lui, checché ne dicano i sovranisti, ha i suoi limiti da non superare pena la catastrofe finanziaria. 

La conclusione è che senza l’intervento massiccio e duraturo del capitale privato, la grande nave ecologica è destinata a restare nella zona d’ombra là dove la vecchia rotta non c’è più e una nuova rotta ancora non si intravede. Alla fine  ha ragione il principe Carlo, che molti hanno a lungo ridicolizzato. Mezzi e strumenti finanziari non mancano. Per esempio ci sono i green bond, secondo Sean Kidney, che guida la Climate Bonds Initiative, sono arrivati a mille miliardi di dollari, ne serviranno altri cinquemila di qui al 2025, ci sono le banche, i fondi d’investimento, le imprese multinazionali. Gli investimenti sostenibili continuano a crescere con ritmi a due cifre ed è prevista un’accelerazione. La politica ha un ruolo importante, a cominciare dalla politica monetaria: tassi d’interesse ai minimi e acquisto di titoli pubblici e privati finora non hanno provocato una bolla, al contrario di quel che sostengono gli ortodossi, ma hanno oliato la macchina mondiale. C’è la politica fiscale, senza dubbio, anche se tassare i ricchi suona bene, ma frutta poco. Non esiste un unico strumento, né c’è un deus ex machina che tiri fuori il mondo da questo pasticcio, ma più delle tasse può il capitale. Chiamatelo se volete capitalismo buono o semplicemente capitalismo. Tuttavia è all’interno di questo Proteo economico sociale che maturano ancora una volta i grandi cambiamenti, anche quelli politici.

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