(foto Ansa)

Perché i giovani non escono bene dalla manovra del governo

Veronica De Romanis

 Il governo punta sulla crescita per ridurre il debito ma senza investire nei giovani la crescita non ci sarà. Un appello

L’Italia non è un paese per giovani. Oramai è chiaro. La riprova arriva dal dibattito sulla legge di Bilancio. Il tema che sta maggiormente a cuore ai partiti che compongono la maggioranza è quello delle pensioni. Ossia il futuro di chi un lavoro lo ha avuto. Il futuro di chi il lavoro lo deve ancora trovare, invece, non sembra essere al centro dell’agenda di politica economica. Non c’è da stupirsi, però. Non lo è stato neanche prima della pandemia. I dati parlano chiaro. Nel 2019, l’incidenza della povertà assoluta tra i più giovani era pari al 12 per cento, il triplo di quella degli anziani. Prima dello scoppio della precedente crisi – nel 2007 – la proporzione era sostanzialmente simile. Cosa è successo nell’ultimo decennio? Semplice. I giovani hanno pagato il costo maggiore. Per questo Angela Merkel li aveva definiti una “generazione persa”. In un simile contesto, le risorse pubbliche che – va ricordato – sono scarse e limitate avrebbero dovuto essere destinate prioritariamente ai giovani. E, invece, si è scelto di concentrare buona parte della spesa pubblica nel comparto della previdenza. Tanto che nel 2019, il rapporto rispetto al Pil era del 16 per cento, il primo in Europa.

Ad accrescere tale rapporto in maniera significativa ha contribuito l’introduzione di Quota100. Una misura che l’allora governo Conte1 presentò come “a favore” dei giovani. E, invece, si è rivelata “contro” i giovani. Per due motivi. Non ha creato lavoro. Ossia la famosa staffetta generazionale “esce un anziano entrano tre giovani” non si è verificata. Un esito facile da prevedere. E da anticipare. Bastava dare uno sguardo (anche rapido) all’esperienza di altre economie per rendersi conto che il lavoro per i giovani non si crea attraverso i prepensionamenti dei sessantaduenni. Al contrario. La dove vi è un’elevata occupazione degli over 55 vi è anche un’elevata occupazione dei 15-24enni. Quota 100 è una misura “contro i giovani” anche perché lascia loro il conto da saldare. Il costo cumulato entro il 2030 dovrebbe attestarsi intorno ai 28/30 miliardi. Una cifra significativa ma – per fortuna – inferiore alle attese dal momento che il cosiddetto “tiraggio”, ossia il numero delle persone che hanno scelto di aderirvi è stato più basso delle stime iniziali: circa 300 mila persone, di cui due terzi uomini. Davvero stupisce che una simile misura sia stata pensata e approvata da un governo guidato da un premier Giuseppe Conte e due vice-premier, Luigi Di Maio e Matteo Salvini, relativamente giovani e da un parlamento con l’età media più bassa di sempre: 44 anni alla Camera e 52 anni al Senato. La lezione da imparare in questi caso è che eleggere politici giovani non necessariamente garantisce che vengano implementate politiche per i giovani. Lo si è visto anche durante la pandemia. Dove, ancora una volta, le nuove generazioni hanno pagato il costo più alto. E come poteva essere diversamente? I giovani hanno affrontato la crisi con poco lavoro (il tasso di disoccupazione dei 15-24enni nel 2019 era intorno al 28 per cento, un livello rispetto alla media dell’area dell’euro) e scarsa formazione (i Neet, ossia i giovani senza un’occupazione e un programma di formazione erano al 23 per cento, contro il 12 per cento della media dell’area dell’euro). Con simili vulnerabilità, era chiaro che sarebbero stati meno resilienti e, quindi, meno capaci di reagire a uno shock come il Covid-19. Le scelte fatte da chi era alla guida del paese al momento dello scoppio dell’emergenza sanitaria hanno – se possibile – reso la situazione ancor più drammatica. Tra queste va ricordato che in Italia le scuole sono state chiuse per ben trentotto settimane. In Europa, hanno fatto peggio di noi solo Polonia e Slovenia (rispettivamente 43 e 47 settimane). I paesi che hanno imposto meno sacrifici ai ragazzi sono stati il Portogallo (con 24 settimane di chiusura), la Spagna (15) e la Francia (12). Chiudere la scuola, in molte realtà, ha comportato un peggioramento significativo della qualità dell’istruzione. Si è, così, perso, capitale umano. Gli esiti dei test Invalsi lo dimostrano. Il 44 per cento degli studenti della quinta superiore non arriva a un livello minimo di italiano, il 51 a quello minimo di matematica.   

La situazione dei maturandi è ancor più drammatica se si considera che il 49 per cento finisce la scuola avendo acquisito competenze pari a quelle della terza media. Diversi politici hanno interpretato i suddetti risultati come la diretta conseguenza della didattica a distanza. Purtroppo, questa è una lettura parziale della realtà. Simili dati erano emersi anche prima della pandemia. Ma sono stati sottovalutai. O meglio, sono stati ignorati. Del resto, come si è detto la formazione non era una priorità. E, non lo è stata fino a che non sono arrivati i soldi da Bruxelles. Si è dovuto aspettare il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) per realizzare interventi a favore dei giovani. Tra questi i più significativi sono il miliardo e mezzo destinato agli istituti tecnici (che vanno potenziati visto che nove studenti su dieci che escono da queste scuole poi trovano lavoro) e i 600 milioni per l’alternanza scuola lavoro. A questo proposito, vale la pena ricordare che proprio il sistema duale – che consente ai giovani di passare parte della settimana a scuola e parte in azienda – era stato (inspiegabilmente) depotenziato sia in termini qualitativi che quantitativi dal Conte 1. 

Questi due strumenti sono molto utilizzati nel Nord Europa, a cominciare dalla Germania dove il tasso di disoccupazione giovanile è inferiore al 7 per cento, meno di un quarto di quello italiano. L’obiettivo che il governo si è posto con il PNRR è ambizioso: a fine periodo, l’occupazione giovanile è attesa aumentare di 3,3 punti percentuali. Al Sud la stima è maggiore e pari al 4,9 punti percentuali. A conti fatti, se utilizzati al meglio, i fondi europei dovrebbero cominciare a cambiare il futuro delle prossime generazioni. Ma cosa succederà dopo il 2026, quando non ci saranno più? Il governo in carica sarà disposto a mettere i giovani al centro dell’azione di politica economica? Sarà capace di trovare le risorse necessarie senza cadere nella tentazione di dare di più a chi è più “vocal”, ossia chi si fa sentire attraverso le organizzazioni sindacali e attraverso il proprio voto? L’evoluzione del dibattito attuale non lascia molto spazio all’ottimismo. Una nuova agenda richiederebbe una nuova consapevolezza. E, soprattutto, un nuovo metodo. Basato essenzialmente su tre elementi. In primo luogo, la programmazione. Niente più visione corta ma sguardo lungo. L’istruzione inizia dagli asili nido: è li che si comincia a formare i cittadini di domani e, allo stesso tempo, si riducono le disuguaglianze. Una volta costruiti con i soldi del PNRR (che su questo punto delude perché i fondi sono insufficienti e gli obiettivi in termini di copertura poco ambiziosi) questi asili andranno manutenuti. In altre parole, sarà necessario trovare i finanziamenti per pagare chi ci lavorerà. E, bisognerà trovarle del bilancio dello Stato. Non a debito, quindi. Bensì tagliando da qualche parte. Ciò richiederà un programma di lungo periodo di spending review, con precise responsabilità politiche, fino ad ora mai attuata. Il secondo elemento del nuovo metodo dovrebbe essere quello della valutazione. Ossia dell’analisi costi e benefici. Da fare ex-ante e non ex-post come con Quota 100. L’ultimo elemento è quello della selezione. Le risorse pubbliche vanno allocate in base a delle priorità predefinite. Perché non sono infinite. E, invece, in questi anni sta passando il messaggio contrario. Che “le risorse ci sono” (copyright Roberto Gualtieri in veste di ministro dell’Economia e delle Finanze del Conte2) perché si può fare debito. In particolare, quello “buono” che serve per gli investimenti. E’ certamente vero che il contesto non è mai stato tanto favorevole per ricorrere all’indebitamento. Ma non sarà così per sempre. E, poi, questo debito – incluso quello buono – sarà a carico delle prossime generazioni. 

Eppure, il debito non è considerato più un problema. Perché c’è la soluzione. Si chiama crescita. Più si cresce, più sarà facile ridurre il rapporto debito/Pil. Chiaro? Non tanto. Se non si investe nei giovani è difficile pensare di poter crescere in modo duraturo. Il rischio è quello di innescare un circolo vizioso: molto debito, poca formazione, poca crescita, molto debito e così via. Un film già visto. Investire sui giovani richiede anche credibilità. Ciò che forse è mancato di più in questi anni. Basti pensare che un terzo del nostro parlamento è composto da esponenti del Movimento 5 Stelle eletti grazie allo slogan “uno vale uno”. Un messaggio offensivo per tutti i ragazzi e le ragazze che studiano e si impegnano quotidianamente per costruire il proprio futuro. Luigi Di Maio, probabilmente il politico pentastellato che ha tratto il maggior vantaggio (in termini elettorali) dall’“uno vale uno”, ha spiegato che quella fase è terminata. Ora è iniziata quella della competenza. Un ripensamento, quello di Di Maio, che non può che essere accolto con favore. Ma quanto ci è costato? 

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