Il ministro della Transizione Ecologica, Roberto Cingolani (Ansa)

Incognite e prospettive

Come evitare che la transizione energetica sia ostaggio dei populismi

Guglielmo Barone*

Eliminare sul nascere il brodo di coltura populista, disegnando un cambiamento tale che costi e benefici siano distribuiti in modo equo, attraverso sistemi di protezione dei redditi individuali e di riqualificazione della forza lavoro

Nei giorni scorsi la Commissione europea, nell’ambito del pacchetto per il raggiungimento della neutralità climatica (Fit for 55), ha proposto lo stop alla vendita di autoveicoli nuovi a combustione interna a partire dal 2035. Al di là dei possibili benefici ambientali dell’iniziativa, occorre discuterne alcune possibili conseguenze economiche e politiche di rilievo.

 

Iniziamo da qualche dato di inquadramento. A detta degli esperti, un veicolo elettrico necessita di molte meno parti meccaniche rispetto a uno tradizionale e molte di queste parti sono completamente diverse dalle attuali. Per esempio, la componente software è molto più importante di quella meccanica rispetto a quanto non accada adesso. Ne consegue che molte imprese attualmente impegnate nella filiera dell’automotive si troverebbero a produrre beni inutili, un po’ come i ferri di cavallo quando l’automobile soppiantò le carrozze. Sarà quindi necessario, per queste imprese e per i loro lavoratori, un forte sforzo di riconversione, senza alcuna garanzia che nel nuovo equilibrio ci sia posto per tutti. Un secondo dato da tenere a mente è che l’industria automobilistica, anche senza considerare l’indotto, vale il 2 per cento dell’economia europea, l’1,3 per cento in termini di addetti: numeri tutt’altro che trascurabili. Insomma, siamo potenzialmente di fronte a un forte choc tecnologico che riguarda una fetta rilevante dell’economia europea. Per di più si tratta di uno choc endogeno, frutto cioè di una esplicita scelta politica. 

 

Fatte le debite proporzioni, torna in mente il precedente storico della cosiddetta globalizzazione, che offre una lezione da tenere a mente oggi. A partire dagli anni 90, dopo la fine della Guerra Fredda, sono emersi alcuni paesi come nuovi grandi player manifatturieri. La Cina ne è l’emblema. Diversi studi hanno mostrato come l’emersione di questi nuovi attori nel mercato globale abbia portato alla perdita di posti di lavoro in diversi paesi occidentali (Italia inclusa) e che questo fatto, a sua volta, abbia favorito il voto verso forze populiste capaci di intercettare il malessere dei “perdenti” della globalizzazione, come per esempio gli operai della rust belt americana o di alcuni distretti industriali italiani. Il trumpiano “America first” sintetizza magistralmente come l’occidente abbia già sperimentato la catena di eventi riforma-disoccupazione-populismo. Un populismo che ha nella rivolta contro le élite – quelle, per esempio, che trent’anni fa hanno aperto i mercati mondiali e favorito l’uscita dalla povertà di milioni di persone del secondo e terzo mondo – un asse portante della sua narrazione. 

 

Che fare? Non di certo arroccarsi in sterili battaglie di retroguardia: se l’auto a zero emissioni è un tassello centrale della strategia della decarbonizzazione allora occorre perseguire questa strada. È necessario però prosciugare sul nascere il brodo di coltura di nuovi populismi, disegnando da subito la transizione in modo tale che costi e benefici siano distribuiti in modo sufficientemente perequato. In Europa occorreranno sistemi molto efficaci di protezione dei redditi individuali e di riqualificazione della forza lavoro. Vasto programma. Ma solo così la tutela ambientale può diventare un orizzonte politico condiviso e non un lusso dei ricchi pagato dai poveri. 

 

Tra l’altro, il rischio di alimentare la retorica anti elitista è accentuato dal fatto che – sfortunata coincidenza – proprio i paesi più specializzati nell’automotive (Repubblica Ceca, Slovacchia, Romania, Ungheria, Germania, Polonia) siano in certi casi anche quelli che hanno un mercato del lavoro più rigido, quindi meno capace di riallocare i lavoratori tra imprese (è il caso della Repubblica Ceca) e che si caratterizzano, già oggi, per una maggiore penetrazione dei partiti populisti (Repubblica Ceca, Polonia, Ungheria). Se questo è lo scenario, come si colloca l’Italia? Maluccio: sebbene il nostro non sia tra i paesi Ue più esposti allo choc (a differenza del sentire comune), il nostro è un mercato del lavoro poco capace di ricollocare i lavoratori (emblematico in tal senso è il blocco dei licenziamenti collegato al Covid), dove i sindacati sono poco sensibili ad accompagnare il cambiamento e c’è una forte permeabilità alle sirene populiste. In questa prospettiva, il rafforzamento delle politiche attive e di quelle sociali previsto dal Pnrr sembra un primo passo nella direzione giusta del disegno della transizione. 

Guglielmo Barone, Università di Bologna

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