Per le Tlc servono regole e concorrenza, non un monopolista

Rosamaria Bitetti

La proposta di Grillo di fondere OpenFiber e Tim per creare un nuovo moloch pubblico è fuori da ogni standard internazionale

La discussione di policy, in Italia, lascia talvolta perplessi i tecnici: ad esempio, le linee guida internazionali e nazionali, suggeriscono che le proposte regolatorie debbano nascere da una revisione della struttura del mercato e dall’analisi comparata delle best practice. Da noi un ex comico, senza alcun ruolo istituzionale o competenza di regolamentazione, lancia sul suo blog la proposta radicale di fondere due aziende, nazionalizzando una privata, per creare un nuovo moloch delle telecomunicazioni. Il presidente del Consiglio si dice d’accordo.

  

Beppe Grillo spiega che è giunto a contezza del fatto che non possa esistere un mercato delle telecomunicazioni se chi possiede la rete eroga anche i servizi. Problema che si sono posti in effetti una generazione di studiosi, qualsiasi autorità regolatoria, l’Ue, l’Itu, l’Ocse e chi più ne ha più ne metta. La conclusione? Che è fondamentale una regolamentazione imparziale: eliminare conflitti d’interesse, imporre una credibile separazione fra le attività di gestione della rete (monopolistiche) e quelle di erogazione dei servizi (in concorrenza). Ma Grillo dissente: l’unico modo per avere un mercato è avere un monopolista pubblico. Non ci è dato sapere il motivo, non possiamo che rimetterci alla sua autorità scientifica sul campo.

   

Non solo. Già che ci siamo, affidiamo al monopolista la gestione dello spettro e del 5G. Anche se sono due mercati diversi, entrambi abbastanza funzionanti: nell’ultima rilevazione dell’Ocse “Product market regulation indicators”, l’Italia ha barriere regolatorie più basse che in altri paesi membri sia per la telefonia fissa (0.3 contro una media di 0.84) che mobile (0.6 contro 0.73). Ironia, uno dei motivi per cui stavolta non siamo fanalino di coda è proprio il fatto che la proprietà pubblica sia limitata. Cosa a cui Grillo vorrebbe porre rimedio.

  

Nel testo che ha convinto Conte, l’unico vago argomento economico, quantomeno per quel che riguarda la fibra, è quello di evitare la dispersione degli investimenti. Tuttavia, se da una parte OpenFiber, creata a tavolino dal governo, ha mostrato carenze nel rispettare il piano di investimenti, ha però spinto Telecom a lanciare un suo piano investimenti: la concorrenza infatti non disperde, ma stimola, gli investimenti. Ed è per questo che andrebbe incoraggiata, non limitata.

  

La regolazione può valutare le sinergie anche se riducono la concorrenza, ma è importante creare un sistema aperto in cui queste emergano nel mercato, non dall’alto. Peraltro una caratteristica delle joint venture private è che, quando non raggiungono gli obiettivi, falliscono. Le joint venture pubbliche, quando non raggiungano gli obiettivi, chiedono altri soldi al contribuente, dopo aver già danneggiato il consumatore. Ce lo dimostra Grillo: accusa OpenFiber (e non il design regolatorio, probabilmente fallace) di non aver coperto le aree bianche, ma ne conclude che debba essere penalizzato il suo concorrente per rilanciare le attività pubbliche. Sì, quelle stesse che secondo Grillo hanno fallito.

  

Le telecomunicazioni hanno stravolto la società, generato produttività senza eguali, e giocheranno un ruolo chiave nella competitività degli stati, a maggior ragione se esperiremo di nuovo situazioni di pandemia. La buona regolamentazione è fondamentale, e non può basarsi su slogan, ma su evidenze scientifiche. Prendendo ancora a prestito le parole dell’Itu: “La politica e la regolamentazione dovrebbero focalizzarsi sulla costruzione di fiducia. Una regolamentazione collaborativa crea lo spazio in cui possano nascere proposte mutualmente benefiche, per raggiungere obiettivi regolatori coinvolgendo l’industria. La fiducia è il fondamento del processo regolatorio, e la base per la crescita del mondo digitale”.

  

Se veramente vuole più investimenti, la politica deve dare norme stabili e certe, non minacciare nazionalizzazioni e cambiamenti radicali fuori dalle sedi istituzionali.

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