(foto LaPresse)

Opa in salsa venezuelana

Grillo vuole Tim via Cdp. Nasce la prima merchant bank che parla genovese

Stefano Cingolani

Come per Ilva e Autostrade, si propone di nazionalizzare Telecom cacciando gli azionisti sgraditi (stavolta Bollorè)

Roma. Beppe Grillo è tornato ai vecchi disamori. La madre (matrigna) di tutte le privatizzazioni, Telecom Italia, è stata a lungo la palestra per affinare le campagne antiestablishment che hanno preparato il Movimento 5 stelle. Grillo partecipava come disturbatore alle assemblee, lanciava invettive e si avventurava in proposte. Nel 2007, quando l’azionista di riferimento era ancora Marco Tronchetti Provera, evocava Al Capone e chiedeva le dimissioni di “presunti manager con le pezze al culo”. Nel 2010 voleva che Franco Bernabè cedesse tutto agli spagnoli di Telefónica restituendo allo stato “la dorsale”, cioè la rete. Tre anni dopo al contrario si è scagliato contro la vendita chiedendo l’intervento diretto del governo: “Basterebbe dirottare parte dei miliardi destinati alla Tav in val di Susa”.

 

Dopo un periodo di immersione nella futurologia, eccolo di nuovo in pista alla testa dei suoi prodi, con un’altra proposta che vede il governo impadronirsi di Tim attraverso la Cassa depositi e prestiti, cacciare la Vivendi di Vincent Bolloré (o meglio “Dalla posizione di forza di Cdp, proporre ai francesi di vendere”), avviare un’unica società integrata: rete mobile, 5G, banda ultralarga, senza più Open Fiber e, di conseguenza, l’Enel. Grillo ricorda che la rete unica controllata dallo stato è sempre stata un suo pallino, ma prima voleva che fosse separata da chi eroga i servizi e aperta a tutti, adesso pensa invece a una concentrazione.

 

Visti gli zig zag dobbiamo prendere sul serio l’ultima uscita del comico? La risposta è sì per due motivi. Il primo è scritto alla fine del post nel suo blog dove chiede se “il ceo di Cdp Fabrizio Palermo, è pronto a spiegare i dettagli” del progetto. Una domanda ambigua e intrigante: presuppone, infatti, che la proposta sia già stata esaminata dall’amministratore delegato (nominato dal governo gialloverde su proposta grillina). Se è così, il pasticcio non è indifferente (e non solo sul piano formale).

 

Il secondo motivo per non mettersi a ridere è più vasto ancora, infatti Grillo applica alle telecomunicazioni lo schema che i suoi seguaci vorrebbero usare anche in due altre occasioni: Autostrade per l’Italia e Ilva. In sostanza, si chiede che il governo direttamente o soprattutto attraverso l’onnipresente Cdp intervenga con i denari dei contribuenti e dei risparmiatori nel capitale di aziende private scatenando vere e proprie battaglie con l’obiettivo di cacciare gli azionisti sgraditi, siano italiani come i Benetton o stranieri come Vivendi e ArcelorMittal, per prendere il controllo, mettere al vertice uomini fedeli (Grillo propone di “cambiare subito l’amministratrice delegata di Open Fiber. Non all’altezza. E nominare una persona che inizi a lavorare alla fusione con Tim”), realizzare piani industriali decisi in sede politica. Piani confusi e contraddittori stando a quel che si è sentito per le Autostrade, dove sono stati evocati l’Anas o fondi di investimento, per l’acciaio dove l’ipotesi è ridimensionare se non chiudere il centro siderurgico, e per le telecomunicazioni; ma tant’è. Altro che i tempi delle Partecipazioni statali, altro che la “merchant bank” di Palazzo Chigi guidata da Massimo D’Alema che favorì l’Opa di Roberto Colaninno su Telecom; qui siamo al colpo di mano del governo per cambiare d’ufficio non solo la gestione, ma la natura di una società per azioni.

 

Non entriamo in questa sede nel merito della proposta, anche se i continui ripensamenti grillini gettano un’ombra sulla sua consistenza. Tra l’altro, se la Cdp diventa azionista di controllo in Telecom deve accollarsi anche gli ingenti debiti (almeno 24 miliardi di euro). Tim ha come suo azionista rilevante il fondo americano Elliott: la Cdp dovrà liquidarlo, indurlo a vendere, o che cos’altro? Quale investitore privato di un certo peso sarebbe disponibile a rischiare i propri quattrini o a indebitarsi sul mercato, se può essere estromesso dal governo con un colpo di blog?

 

E’ vero che l’Italia non è paese per public company se anche un politico, uomo d’affari e giurista di primo livello come Bruno Visentini la chiamava “impresa di nessuno”. Ma qui siamo in pieno arbitrio politico, un territorio in cui non comanda l’imprenditore con la sua “forza virile” che tanto piaceva a Visentini, non il mercato, ma nemmeno la legge. Addio a Rousseau e alla democrazia diretta, entrano Putin e Chávez (dal Venezuela non saranno venuti soldi, ma certo molta ispirazione). La merchant bank che non parla inglese, ma russo, spagnolo, farsi o genovese non s’era ancora vista. Speriamo che Fabrizio Palermo parli italiano e parli chiaro.