Roma, manifestazione davanti alla Banca Popolare di Bari (LaPresse)

Salvare Pop Bari è stato un “atto di responsabilità” da 1,2 miliardi

Mariarosaria Marchesano

I maggiori costi sono a carico di Intesa Sanpaolo e Unicredit. Boccuzzi (Fitd): la banca sarà pubblica, noi usciremo dal capitale

Milano. Salvare la Popolare di Bari costa al sistema bancario italiano quasi 1,2 miliardi di cui, secondo dati ufficiosi, circa 300 milioni di euro a carico della sola Intesa Sanpaolo e circa 210 milioni a carico di Unicredit, in base alla loro quota di contribuzione al Fitd, il Fondo interbancario per la tutela dei depositi (151 sono le banche consorziate) il cui plafond finanziario è stato rimpinguato proprio per consentire l’operazione. Si tratta di uno sforzo senza precedenti per il sistema bancario, che si è reso necessario nel momento in cui l’Unione europea ha posto dei paletti all’intervento di un istituto pubblico come il Mediocredito centrale e non sono stati trovati investitori privati interessati. Mcc, infatti, potrà sottoscrivere solo 430 milioni dell’aumento di capitale da 1,6 miliardi necessario per ripianare le perdite e rimettere in piedi la banca pugliese . Per la restante parte, toccherà al Fitd farsene carico.

 

Attenzione, però, perché in base allo schema concordato mercoledì sera sarà comunque Mediocredito ad assumere il controllo della banca, in virtù del fatto che il Fitd gli girerà tutte le azioni per poi uscire di scena. Ma perché il sistema bancario spende tutti questi soldi – in un momento di grande crisi – per poi lasciare campo libero all’azionista pubblico? Il Foglio ha rivolto la domanda al direttore generale del Fondo, Giuseppe Boccuzzi. “Con quest’operazione il sistema bancario fa un atto di responsabilità nei confronti del paese e quest’atto assume maggior rilievo proprio per la fase di emergenza che stiamo vivendo. Il Fondo interbancario ha ancora una volta fornito il proprio contributo per la salvaguardia dei valori dell’impresa bancaria e della continuità delle funzioni essenziali, insieme con la tutela dei depositanti e degli altri creditori, evitando soluzioni disgregative nei rapporti della Popolare di Bari con le famiglie e le imprese”. Insomma, è come per dire che il costo sostenuto per questo salvataggio è inferiore a quello che l’intero sistema del credito dovrebbe sostenere se fallisse l’istituto barese, che conta circa 2.600 dipendenti, 4 miliardi di depositi e 70 mila soci. Proprio questi ultimi sono sul piede di guerra perché contrari a una ricapitalizzazione che salva la banca ma non il valore delle loro azioni. “Il Fondo ha deliberato di mettere a disposizione degli attuali azionisti, a titolo gratuito, un numero di azioni corrispondenti a un valore di 30 milioni di euro. Ma l’aspetto più rilevante del nostro intervento resta quello del ripianamento delle ingenti perdite che apre la strada all’aumento di capitale e consente, quindi, il salvataggio della banca”, prosegue il direttore generale del Fitd. Per il Fondo, invece, avrebbe avuto senso far parte del capitale se fosse arrivato il classico “cavaliere bianco” com’è successo per Carige. “La nostra presenza nell’assetto di una banca non può che essere temporanea. In Carige abbiamo facilitato l’arrivo del gruppo trentino Ccb con il quale esistono accordi che consentiranno a loro di crescere gradualmente e a noi di uscire. Un caso completamente diverso dalla Pop di Bari in cui è intervenuto lo stato, per cui non vi è motivo per noi di restare”. E non poteva essere diversamente considerato che l’ambizione di creare un polo bancario del sud, che avesse come soggetto aggregatore l’istituto pugliese, si è infranto di fronte al desiderio di autonomia delle piccole banche popolari o di credito cooperativo locali. E tanto meno si sono rivelate concrete le ipotesi di un interesse di gruppi esteri. Resta da capire in base a quale modello la nuova Pop Bari conta di creare ricchezza ed evitare in futuro ulteriori coperture di perdite. Ma questo non sarà più un problema del Fitd.

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