Maurizio Stirpe (foto LaPresse)

Stirpe, n° 2 di Bonomi, ci dice perché “il governo non ha una rotta per il futuro”

Renzo Rosati

"Nei provvedimenti di queste settimane ci sono errori plateali che possono essere corretti", spiega il vicepresidente di Confindustria

Roma. “In questa fase 2, come già in quella uno, qualcuno nel sindacato pensa di portarsi avanti, guadagnare posizioni, riesumare una visione novecentesca dell’economia e della società e ottenere la benedizione del governo. Nel quale, magari non in tutti i ministri, la tentazione di dargliela esiste. Ma così usciremo dalla pandemia non in maniera simmetrica agli altri, ma di nuovo in grave ritardo. E’ evidente che la simmetria c’è stata all’inizio, ma ora dipende dai governi. E nel governo non vedo una rotta per il futuro”. Maurizio Stirpe, vicepresidente di Confindustria con la delega chiave al lavoro e alle relazioni industriali, imprenditore con una multinazionale di componenti per l’auto, è tra i pochi del vertice confindustriale confermato da Carlo Bonomi. Il presidente designato per criticare il governo non ha atteso la ratifica del 20 maggio, anzi. Ancora ieri ha attaccato sul “denaro distribuito a pioggia, denaro che non avevamo, dunque soldi presi in prestito”, sul fatto che “non si salvano per legge le imprese dal fallimento”, preconizzando “l’esplosione di un’emergenza sociale per settembre-ottobre”.

 

 

Stirpe conferma, addentrandosi nel terreno dei rapporti con i sindacati. “Nei provvedimenti di queste settimane ci sono errori plateali che possono essere corretti: il divieto di licenziamento per tre mesi va allineato con i tempi di erogazione della cassa integrazione; la responsabilità di eventuali contagi non può essere dell’impresa se questa ha rispettato i protocolli di sicurezza; lavorare secondo i codici Ateco, strumento di classificazione Istat e la cui interpretazione è stata demandata al buon senso dei prefetti, è ormai illogico. Ma il vero problema è l’immediato futuro. Per capirlo bisogna però tornare all’era pre-coronavirus”. Nella quale non stavamo affatto bene”. “Già: un deficit di produttività che si trascina da oltre 20 anni; un altro deficit di competitività; il tutto con il circuito viziato del costo del lavoro, del mancato riequilibrio tra contrattazione collettiva e aziendale, di scuola, formazione, università, ricerca che vivono a parte dell’industria, il che determina il mismatching, la domanda di lavoro che non coincide con l’offerta”.

 

 

Problemi annosi. “Eppure il primo settembre 2016 ne avevamo individuato la soluzione con le parti sociali nell’accordo che chiamammo Patto per la fabbrica. Quel percorso si è interrotto e il clima attuale non porta nulla di buono”. Troppa assistenza, troppe statalizzazioni? “Non solo. Già prima il ministero dello Sviluppo economico aveva avocato oltre 160 tavoli di crisi, inconcepibile. Il Mise deve occuparsi solo dei casi risolvibili, per i quali va bene la cassa integrazione. Il resto va considerato assistenza e passato al ministero del Lavoro. E qui entra in ballo l’uso propagandistico del welfare”. Tipo? “Il Reddito di cittadinanza ha fallito nel trovare occupazione. Chiamiamolo in un altro modo, limitiamone il raggio di azione e mettiamo fine alla finzione. L’attacco sistematico alla previdenza con Quota 100 oltre a sottrarre risorse pubbliche afferma l’idea di uno stato che tratta le pensioni come merce di scambio elettorale. La riforma Fornero è valida, le eccezioni devono essere circoscritte ai lavoratori precoci e alle attività usuranti, e stop”.

 

Riforme gialloverdi… “Che il governo giallorosso non ha avuto il coraggio di rinnegare. E asseconda il sindacato in una regressione statalista-massimalista. La resilienza delle imprese non è scontata, non lo dico io, l’ha appena detto la Banca d’Italia paventando un 10 per cento di insolvenze. Passando alla microeconomia, se si pensa che un’azienda debba lavorare 5 ore su otto, le tre eccedenti devono essere retribuite da qualcun altro”. Anche voi chiedete assistenza? “Neanche per sogno. Ma intanto: non possiamo sentirci dire che ci è concesso, quasi per grazia sovrana, di riprendere a lavorare. Lo stesso vale per il commercio. Lo smart working è un’opportunità, ma ha anche dei costi e quindi consideriamolo un investimento con quel che ne consegue. In definitiva: sia chiaro che si tratta di salvare l’impresa, non gli imprenditori. E che accanto ai diritti è l’ora di parlare di doveri”.

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