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Piangere sul vino versato

Nicola Imberti

Preoccupazione per i dazi con cui Trump potrebbe colpire i produttori vinicoli italiani. Le responsabilità e i limiti dell'Ue, la rabbia degli importatori americani e la speranza che quella di Donald, alla fine, sia solo una minaccia

“Mi spieghi con le sue parole, perché lo champagne francese non può essere sostituito dallo spumante americano?”. Basterebbe questa frase contenuta nelle quasi 400 pagine di verbali pubblicati sul sito dell'Ustr (il rappresentante per il Commercio degli Stati Uniti) per capire che nella battaglia sui dazi fra America e Unione europea, quello che riguarda il vino è, per così dire, un “danno collaterale”.

 

Come ha scritto bene Alder Yarrow in un articolo pubblicato sul sito di Jancis Robinson, giornalista e Wine Master che tra le sue attività ha anche quella di consulente per le cantine di sua maestà la regina Elisabetta II, le trascrizioni mostrano che “nessuno dei rappresentanti del governo ha idea di come funzioni il business del vino (o dell'alcol) negli Stati Uniti”. E se non sai, è evidentemente difficile capire se e come un dazio può modificare il mercato colpendo, magari, chi vorresti difendere.

 

Ma andiamo per ordine. Lo scorso ottobre gli Stati Uniti hanno applicato una prima tranche di dazi su merci europee. Decisione fastidiosa, deprecabile, se non fosse che la legge è dalla parte del “protezionista” Donald Trump. Una sentenza del Wto ha infatti stabilito che l'Unione ha erogato “sussidi illegali” ad Airbus distorcendo il mercato e penalizzato la concorrente, americana, Boeing. Per questo gli Stati Uniti sono stati autorizzati a introdurre dazi fino a un valore massimo di 7,5 miliardi di dollari. Il presidente americano ne ha attivati una parte ora e, dopo 120 giorni, ha la possibilità di innalzare ulteriormente le tariffe. E se a ottobre erano stati colpiti i vini francesi, tedeschi, spagnoli e inglesi, adesso potrebbe toccare ai vini italiani

 

Lunedì 13 gennaio l'Ustr ha concluso la fase di consultazione pubblica e ha raccolto sia le osservazioni dei privati cittadini sia quelle degli operatori del settore. Tra chi ha inviato le proprie osservazioni c'è anche Giuseppe Vaira, 35 anni, che insieme ai fratelli e ai genitori produce il Barolo G.D. Vajra. Nella sua lettera, inviata al rappresentante per il Commercio del governo americano Robert Lighthizer, Giuseppe sottolinea come l'introduzione dei dazi, più che agire nell'interesse degli americani, rischia di penalizzarli in maniera irreparabile. “Mi è sembrato un modo rispettoso di offrire il mio punto di vista - racconta al Foglio - all'interno di uno scontro dove, evidentemente, stanno prevalendo le rispettive partigianerie. Gli Stati Uniti rappresentano il primo mercato dell'export italiano del vino (secondo i dati Coldiretti nel 2019 il valore delle esportazioni di vino negli Stati Uniti è stato di quasi 1,5 miliardi di euro in aumento del 5 per cento ndr) non possiamo ragionare su questo argomento solo con la logica delle ritorsioni. La mia speranza, ovviamente, è che alla fine si arrivi a un'intesa. Certo, venissero applicati i dazi, cercheremo una soluzione continuando a lavorare con la creatività e l'impegno che ci ha sempre contraddistinti. Ma mi auguro che non accada, sarebbe un danno enorme”. 

 

 

 

Giuseppe non è stato il solo e sono stati migliaia i commenti contrari arrivati all'Ustr. E anche i rappresentanti delle associazioni imprenditoriali americane, consultati il 7 e l'8 gennaio, hanno espresso dubbi sull'utilità di questa misura. David Waldenberg, presidente della BNP Distributing Company, ha spiegato che con i nuovi dazi il sistema economico statunitense perderà posti di lavoro e milioni di dollari. Non solo, ha fatto notare come le nuove tariffe, colpendo l'utente finale, vadano a minare “la natura dell'essere americani: la libertà di scelta”.

 

Nel frattempo, a più di un mese dal suo insediamento, a Washington è arrivato, accompagnato da tante speranze e da un carico di lettere, Phil Hogan, commissario europeo al Commercio. Prima della partenza gli ha scritto il ministro dell'Agricoltura, Teresa Bellanova, che lo ha invitato a utilizzare tutte le armi della diplomazia per scongiurare la penalizzazione dell’agricoltura e dell’agroalimentare europei. Toni preoccupati anche nella lettera che gli ha inviato il presidente di Confagricoltura, Massimiliano Giansanti: “Sono convinto che il sistema agroalimentare in Italia e al livello europeo abbia molto da perdere nell’eventualità di un inasprimento delle tensioni commerciali con gli Stati Uniti. Pertanto il nostro auspicio è che possa essere avviato un negoziato diretto per evitare l’aumento dei dazi e le inevitabili misure di ritorsione”. Mentre ieri è arrivato anche un comunicato congiunto del Comité Européen des Entreprises Vins (Ceev) e del Wine Institute, le due principali organizzazioni del settore vitivinicolo di Ue e Stati Uniti, che chiedono la completa eliminazione delle tariffe e l'esclusione del vino da controversie commerciali su altri settori. 

  

Bastano lettere e comunicati per scongiurare il peggio? L'impressione è che, come spesso accade, la preoccupazione non sia stata accompagnata da azioni efficaci. O perlomeno sia mancato un punto di sintesi e che ognuno si sia mosso in maniera scoordinata. Soprattutto a livello italiano. “Anzitutto va ricordato che i dazi americani, oltre a essere il frutto della sentenza del Wto su Airbus e una reazione alla Digital tax applicata a Google, Amazon e Facebook, sono anche una risposta ai dazi europei sul bourbon, che viene normalmente prodotto in stati che hanno un posto nel cuore del presidente Trump - dice al Foglio il direttore generale di Federvini, Ottavio Cagiano de Azevedo - Dal lato europeo pende poi un controricorso al Wto sugli aiuti illegali a Boeing, con l'Unione che si è mossa in ritardo rispetto alla sentenza Airbus. Insomma, siamo evidentemente in una logica di dispetti reciproci a cui va aggiunto il fatto che l'amministrazione degli Stati Uniti ha costruito la propria vittoria sullo slogan 'America first'”.

 

“Detto questo - prosegue - alcune aziende italiane produttrici di liquori erano già state colpite nella prima tornata di dazi dello scorso ottobre. Ma secondo me sarebbe sbagliato considerare questa vicenda solo nell'orizzonte dei rapporti Italia-America. È chiaro che si tratta di uno scontro più grande. Tra Ue e Stati Uniti. In questo, evidentemente, il calendario non ci ha aiutato. Ci siamo trovati a gestire il tutto in un momento in cui le nostre istituzioni europee venivano rinnovate, peraltro con tempi più lunghi rispetto al previsto, e quindi le reazioni sono state disordinate, è mancata una voce europea forte. Non solo, il varo del Ttip (Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti) avrebbe probabilmente consentito di limitare i danni. Ma l'Unione si è opposta nettamente”.

 

C'è poi, nel quadro complessivo del caos europeo, il caos italiano. “Anche in Italia - prosegue Cagiano de Azevedo - abbiamo attraversato un momento di transizione con la delega del Commercio estero che, secondo me giustamente, è stata trasferita al ministero degli Esteri. La ministra Bellanova si è mossa da subito e, dal primo giorno di insediamento, si è occupata della vicenda. Ma credo sia mancato il gioco di squadra, una vera azione di governo. Abbiamo un interlocutore unico, il ministro degli Esteri, che però deve destreggiarsi fra la Libia, l'Iran, i dazi, la Brexit. Se ci fosse una squadra tutto sarebbe meno estemporaneo, legato alla situazione contingente, ma la delega al Commercio non è ancora stata assegnata”.

 

Cagiano de Azevedo insiste, però, sulla necessità di ragionare come Europa. “Non possiamo pensare di difenderci da soli. Forse è un'idea che può risultare vincente nel breve periodo, ma alla lunga non può funzionare”. Detto questo il direttore generale di Federvini non crede che gli Stati Uniti compiranno una “scelta suicida” soprattutto in un anno di campagna elettorale. “Ci sono operatori e produttori che possono tollerare gli aumenti delle tariffe in Italia, in Europa e negli Stati Uniti. Ma anche tantissimi che non possono farlo e costringerli a chiudere danneggia tutti. Poi ci sono i consumatori. Non si può pensare che un prodotto possa sostituire un altro. I consumatori voglio quello. E i dazi non favoriranno in alcun modo i produttori americani”.

  

Insomma il vino italiano, forse, non è così a rischio. Ne è convinto anche il presidente di Federdoc, Riccardo Ricci Curbastro: “Come associazione abbiamo fatto tutto il possibile fornendo supporto anche ai nostri importatori americani per presentare i loro commenti all'Ustr. La libertà del mercato è un valore e credo che le guerre facciamo male a tutti. Gli americani sono pragmatici, sono più le ragioni, anche commerciali, che ci uniscono, rispetto a quelle che ci dividono. E poi cosa guadagnerebbero dal danneggiare con i dazi i nostri vini? Si esporrebbero solo a un'altra ritorsione da parte dell'Ue. Sono ragionevolmente sereno”.

 

L'impressione è che per gli Stati Uniti vogliano soprattutto utilizzare il vino come “arma di pressione”. I nuovi dazi dovrebbero entrare il vigore il 13 febbraio. Forse è presto per piangere sul vino versato. Anche se, visti gli interlocutori in campo e gli errori fatti fin qui, è vietato distrarsi.

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