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Lo stato-imprenditore che abusa della legge per (quasi) abolire gli sconti dei libri

Serena Sileoni

Prezzi tagliati non più del 5 per cento. La rabbia degli editori

Roma. Dal 2011, la vendita dei libri è sottoposta a forti limiti di sconti e promozioni. A imporli è stata la legge Levi, dal nome dell’allora senatore che l’ha tenacemente voluta al fine dichiarato di tutelare il pluralismo editoriale. Secondo il promotore, oggi presidente dell’Associazione italiana degli editori, limitare lo sconto massimo sul prezzo di copertina al 15 per cento e le campagne promozionali solo per un mese all’anno, eccetto dicembre, avrebbe incentivato il pluralismo del mercato editoriale, dando una mano ai piccoli editori e librai.

 

La legge fu votata a larghissima maggioranza, col benestare delle categorie interessate. Le uniche critiche furono mosse dalle realtà editoriali minori, che fecero notare come il limite agli sconti fosse troppo alto: ottenuto 30, provarono fin da subito a chiedere 31. Tra i pochissimi, forse unici, piccoli editori che sottolinearono l’evidenza furono Liberilibri e Rubbettino, i quali cercarono di dimostrare come margini promozionali inferiori avrebbero casomai allontanato i lettori, specie i cosiddetti deboli, e li avrebbero allontanati soprattutto da librai ed editori indipendenti, incapaci per dimensioni e risorse di attirare lettori e clientela con servizi paragonabili a quelli dei grandi.

 

Oggi, l’insoddisfazione di chi voleva un limite più stringente nell’illusione che le debolezze e le criticità del mercato editoriale si potessero risolvere col divieto di fare sconti, rischia di diventare legge: una modifica alla Levi già approvata alla Camera riduce ulteriormente lo sconto praticabile al 5 per cento, un limite prossimo, in sostanza, al divieto.

 

Uno dei più diffidenti è proprio l’ex senatore Levi, secondo il quale “abbassare il tetto dello sconto è un provvedimento che finirà per pesare sui consumatori”. Considerare oggi un limite agli sconti come un “disincentivo all’acquisto” (Huffington Post, 2 dicembre 2019) mentre ieri era visto come il suo esatto contrario, non è una banale resipiscenza. Più probabilmente, si ritiene che tra il 15 e il 5 per cento vi sia la differenza tra una buona e una cattiva legge, tra un intervento riparatore delle distorsioni del mercato e un intervento depressivo dello stesso e persino lesivo del pluralismo editoriale.

 

In economia, i numeri sono senz’altro importanti. C’è però una fallacia nel ragionamento, apparentemente contraddittorio, di chi ritiene che un vincolo alla concorrenza possa trasformarsi, per motivi quantitativi, da incentivo a ostacolo alla diffusione della lettura e dell’offerta editoriale.

 

Leggi come quella sul prezzo del libro sono volute, al di là della soglia percentuale, per correggere i mercati, stimolarli laddove si pensi che siano troppo dormienti o equilibrarli laddove si pensi che siano distorsivi, nella presunzione che vi sia un legislatore onnisciente e preveggente che sappia a priori quale sia il giusto prezzo e il giusto sconto.

 

Trovare una relazione tra i dati di acquisto e di lettura dei libri e le politiche di prezzo rischia di essere fuorviante: ci possono essere molti motivi per comprare o no i libri, che non dipendono necessariamente dal prezzo di copertina. Dall’approvazione della legge Levi a oggi ci sono stati in mezzo una grave crisi finanziaria ed economica, ma anche il continuo cambiamento nelle abitudini delle persone su come impiegare il tempo libero. Verificare quindi l’impatto della legge, depurata da tutte le altre variabili, è impossibile. Così come è impossibile sapere quale prezzo e quale sconto siano giusti per i libri, se non nel momento in cui riescono a essere venduti. Pensare il contrario, cioè che il legislatore abbia la sfera di cristallo per sapere quale sconto sia corretto e quale sbagliato reca con sé, mutatis mutandis, la stessa tara di chi pensava, nelle economie pianificate, che i prezzi fossero variabili di chi governa. Una tara che la storia non ha mancato di smentire, a caro prezzo.

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