Muhammad Yunus (foto LaPresse)

Un capitalismo responsabile

Eugenio Cau

Muhammad Yunus, il Nobel del microcredito, ci spiega i suoi progetti di riforma. C’entra l’intelligenza artificiale

Muhammad Yunus, premio Nobel per la Pace nel 2006, ha un disprezzo assoluto per ogni tipo di teorizzazione. Sedersi con lui per un’intervista significa vederlo fendere con successo qualsiasi questione che non sia perfettamente aderente alla realtà quotidiana. Che si parli della riforma del capitalismo, dei problemi del modello del microcredito o dell’influenza della tecnologia nei paesi in via di sviluppo, sembra incapace di generalizzare, teorizzare, fornire definizioni ampie. Muhammad Yunus non vede fenomeni da analizzare, vede problemi da risolvere, e questa probabilmente è la sua frase preferita: “A me interessa risolvere i problemi”. E’ così che Yunus, che ha 79 anni e l’energia di chi ne ha venti di meno, ha cominciato con il microcredito: con un ripudio delle teorie e un impulso verso l’azione. Si legge in un vecchio profilo di lui scritto dal New Yorker: “Durante la carestia del 1974 in Bangladesh, quando i poveri si mettevano in fila morenti davanti alle case dei benestanti a Dacca, Yunus, un professore di Economia all’Università di Chittagong, scoprì che le teorie che insegnava erano    oscenamente irrilevanti”. Mi racconta lui quello che è successo dopo: “Le persone avevano bisogno di soldi per andare avanti ma erano taglieggiate dagli strozzini. Così ho pensato: perché non glieli presto io i soldi? Ho preso quello che avevo nelle tasche e sono andato nel villaggio più vicino. Tutto nasce dall’urgenza di aiutare le persone”.

 

La Grameen Bank di Yunus è diventata una superpotenza che presta miliardi ogni anno, ma lui dice: facciamo tutto come agli inizi

Per chi non sapesse cos’è il microcredito, di cui Yunus è stato un pioniere e che gli è valso il Nobel, ecco una spiegazione rapidissima e senz’altro incompleta. L’intuizione di Yunus è che i poveri sono eccellenti imprenditori, ma hanno un gigantesco problema: nessuna banca tradizionale presta loro denaro perché nessuno si fida del fatto che lo restituiranno. Yunus invece ha scoperto che i poveri il denaro lo restituiscono eccome, specie se sono donne. In Bangladesh il 97 per cento dei prestiti della sua Grameen Bank va a donne, e le percentuali sono simili in tutti i paesi in cui Grameen opera. “Anche oggi che ci siamo espansi in molti paesi del mondo, perfino negli Stati Uniti, e che prestiamo miliardi di dollari, continuiamo a fare ancora la stessa cosa. Per ottenere un prestito non c’è bisogno di documenti né di garanzie, non ci interessa quanto sei povero. Cerchiamo di finanziare progetti che generino reddito, non speculazioni. Facciamo procedere i pagamenti con piccole somme frequenti, tutte le settimane”. 

 

Il microcredito è stato considerato come una rivoluzione, Yunus ha vinto il Nobel e la Grameen Bank è diventata una superpotenza che fornisce tre miliardi di dollari in microprestiti ogni anno. Ma nel tempo il sistema è stato oggetto di critiche feroci. Non soltanto perché, non appena l’etichetta microcredito è diventata di moda, hanno cominciato a usarla anche gli strozzini. Il fatto è che molti economisti ritengono che il microcredito non aiuti davvero a risolvere il problema della povertà. Specie nei paesi dove le condizioni di vita sono peggiori molte persone chiedono prestiti di microcredito non per aprire un’attività e mettersi in proprio, ma per sussistenza, e questo li getta in una spirale di debito che peggiora la loro situazione. Questo perché, ovviamente, i prestiti della Grameen Bank hanno degli interessi. Sono contenuti, ma ci sono. “Il microcredito in sé non è puro”, dice Yunus al Foglio. “Può essere usato per il bene e può essere usato per il male. Tutto dipende dall’intenzione di chi fa il prestito. Anche il microcredito può essere un business speculativo, che distrugge le persone. Ma per me è un business sociale”.

 

“Business sociale” è un’altra della parole chiave di Muhammad Yunus, che ritiene che la teoria economica classica commetta un errore nel ritenere che l’essere umano abbia come unico obiettivo la massimizzazione del profitto e l’interesse personale. Assieme all’interesse personale, dice Yunus, c’è un interesse più grande, l’interesse della comunità. Se i business tradizionali si occupano dell’interesse personale, il business sociale si occupa dell’interesse della comunità. Yunus, ovviamente, ritiene che la sua Grameen Bank sia il massimo esempio di business sociale. La banca non genera profitto. Si autosostiene, grazie agli interessi, ma qualsiasi surplus viene immediatamente reinvestito. “Non sono interessato a fare profitto, sono interessato a risolvere i problemi delle persone”, dice Yunus: l’unico modo per estirpare la povertà è “cambiare il sistema”. Ecco l’apertura che aspettavo per introdurre il gran dibattito in corso in tutto il mondo sulla riforma del capitalismo. Yunus ha un rapporto controverso con il capitalismo. Lo critica, anche duramente ma non vuole demolirlo. Una frase che gli si sente ripetere ormai da un paio di decenni, tutte le volte che racconta il mito fondativo della Grameen Bank è: “Non sapevo niente di come si mette su una banca. Quindi ho preso ispirazione dalle banche convenzionali. Ho guardato come facevano, e poi ho fatto l’opposto”. Questa frase scatena sempre applausi scroscianti, perfino tra la platea molto orientata al business di una conferenza di EY.

 

“Non è necessario perseguire la tecnologia soltanto per spirito di progresso. Se le cose diventano dannose, bisogna fermarsi”

Ma ancora una volta, quando si tenta di passare dalla pratica alla teoria, Yunus non abbocca. Non vuole parlare del destino del capitalismo, non vuole impantanarsi nella definizione astratta. “Il capitalismo è una macchina, un’architettura. Cambiare il sistema significa cambiare gli obiettivi, non ho interesse a discutere di com’è fatta questa architettura. A me interessa che ci mettiamo attorno a un tavolo e cominciamo ad accordarci sui prerequisiti. La crescita e la massimizzazione del profitto non sono tutto, bisogna cominciare anche a occuparsi del benessere delle persone. Lo stiamo facendo tramite il business sociale. Il business sociale è capitalismo? Questo è un problema tuo, non mio. A me interessa risolvere i problemi delle persone”. Yunus dice che “la mano invisibile del capitalismo non è un destino inevitabile” e ritiene che i mercati finanziari abbiano un controllo eccessivo sull’economia. “Se stiamo lavorando per migliorare la società non dovremmo preoccuparci troppo se i mercati sono in calo. A fianco delle statistiche delle performance finanziarie ne dovremmo avere altre per le performance sociali. Le due possono convivere”.

 

Sembra di leggere il documento pubblicato quest’estate dalla Business Roundtable, diventato famoso perché per la prima volta in molti decenni l’associazione dei principali ceo d’America, che comprende i grandi magnati dell’industria e del digitale, ha riconosciuto che gli interessi degli azionisti non sono l’unico obiettivo che un’azienda privata deve perseguire. Yunus è scettico: “Potrebbe essere un annuncio genuino o una mossa pubblicitaria. Non lo sapremo finché non vedremo azioni concrete”.

 

Alcuni economisti sostengono che il microcredito non sia riuscito ad alleviare la povertà, e anzi abbia peggiorato i debiti di chi l’ha usato

Intermezzo. Ho intervistato Muhammad Yunus al Capri digital summit di EY, l’evento della società di servizi per il business Ernst & Young dedicato all’innovazione e al digitale. Yunus, io e un paio di assistenti di Yunus eravamo seduti sui divani di pelle bianca della lobby molto barocca dell’Hotel Quisisana, un luogo che raramente sente parlare di business sociale. A un certo punto si avvicina a noi Jaron Lanier, che era un altro degli speaker invitati da EY e aveva parlato poco prima. Chiede scusa, interrompe l’intervista. Jaron Lanier è uno dei pionieri di internet, l’uomo che ha letteralmente inventato la realtà virtuale e uno degli intellettuali più importanti del mondo quando si parla di digitale e del rapporto tra il Web e la società. Gli faccio spazio sul divano bianco, lui si siede e comincia questa conversazione: “Buongiorno, mi chiamo Jaron Lanier, ho contribuito a creare internet”. Risposta di Yunus: “Wow!”. I due, il pioniere tech e il premio Nobel, vanno avanti per un po’. Lanier conosce Yunus ma non viceversa. Sta ruminando un progetto per riformare internet, ed è convinto che per farlo sia necessario partire dal basso e avere il contributo dei paesi in via di sviluppo. Yunus non è convinto, come Lanier, che internet sia diventato una minaccia per la società, continua a vedervi del potenziale di connessione e di liberazione. Alla fine della conversazione i due si fanno una foto assieme. Lanier non usa i social network, ovviamente, e chiede che gli sia inviata per email.

 

“A fianco alle statistiche sulle performance finanziarie ne dovremmo avere altre per le performance sociali”

A questo punto bisogna chiedere a Yunus dell’intelligenza artificiale. Sul palco di EY ne ha parlato a lungo. “Sentiamo parlare di intelligenza artificiale che vince premi giornalistici, vince giochi molto complicati come il Go, scrive libri, sostituisce i mezzibusti in televisione. L’intelligenza artificiale potrebbe prendersi non soltanto i posti di lavoro di basso livello, potrebbe rimpiazzare anche i mestieri che richiedono un alto grado di abilità, compreso il mestiere di ceo. Nel corso dei prossimi 15 anni andrà perso mezzo miliardo di posti di lavoro. Il ritorno del capitale aumenterà, perché non ci saranno più stipendi da pagare, e questo provocherà una concentrazione ulteriore della ricchezza. Ma l’introduzione di un reddito minimo garantito per cercare di mitigare gli effetti della disoccupazione di massa avrà come effetto la creazione di una classe di mendicanti. Non è questo il destino che voglio per l’umanità. L’umanità ha un destino di creatività, ciascuno di noi ha il potenziale per contribuire al miglioramento del mondo, non voglio che le persone si trasformino in mendicanti che aspettano che arrivi il loro sussidio dal governo”.

 

Yunus non è necessariamente un pessimista tecnologico. “La Grameen Bank è stata la prima banca in Bangladesh a usare i computer”, dice. “Stiamo anche sperimentando i pagamenti cashless, in modo che le persone non debbano venire da noi tutte le settimane, e stiamo lavorando per superare le resistenze legali in alcuni paesi. E’ ovvio che siamo lieti di avere la tecnologia, rende tutto più facile. Ma la tecnologia non ha una volontà propria. E’ possibile creare un robot che fa operazioni chirurgiche con una precisione che nessun chirurgo umano può raggiungere. Ma è anche possibile creare macchine da guerra autonome che uccidono con un’efficienza che nessun soldato umano può raggiungere. Non è necessario perseguire la tecnologia soltanto per spirito di progresso. Se è dannoso, bisogna fermarsi”.

 

Questo spirito pratico, dicevamo, è un po’ la cifra di Muhammad Yunus. Le sue parole sembrano incendiarie, ma trovano sempre un modo di moderarsi e arrotondarsi. Il capitalismo è malato, sì, ma non deve essere distrutto: è possibile riformarlo, a patto che si sappia imboccare la strada giusta (Yunus non approverebbe mai una teorizzazione tanto spericolata, ma mi prendo la responsabilità). La tecnologia può provocare effetti disastrosi, ma troveremo la forza per fermarci prima che sia troppo tardi. Nella visione del mondo di Muhammad Yunus l’uomo è ancora perfettamente padrone di cambiare il proprio destino – e questo è il pensiero più liberale che ci sia.

  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.