Milano, la sede di Unicredit (foto di Gaetano Virgallito via Flickr)

Perché parlare ora di fusioni bancarie è più temerario che mai

Marco Cecchini

Fusioni in recessione. Tra ciclo negativo e resistenze politiche sposare Unicredit e le grandi banche tedesche è quasi utopia

Roma. In un’intervista al quotidiano francese Echos di ieri l’amministratore delegato di Unicredit Jean Pierre Mustier è tornato a raffreddare le voci su una possibile aggregazione con la transalpina Société générale. “In un orizzonte di breve medio termine non sono immaginabili aggregazioni. Occorre cautela nelle fusioni transfrontaliere – ha detto Mustier – funzionano se permettono di tagliare i costi, non se si vuole accrescere semplicemente la dimensione o soddisfare l’ego dei manager. A dar retta alle voci, noi avremmo dovuto già comprare Lloyds, Deutsche Bank, Commerz Bank, Bbva e Société générale”.

 

L’intervista di Mustier fotografa uno tra i molti aspetti della questione bancaria, in Italia e non solo: il matrimonio come strumento per diventare sempre più grandi o come via d’uscita dai problemi “a prescindere”. In queste ore il governo tedesco incoraggia la fusione tra i due principali istituti del paese: Commerz Bank e Deutsche Bank, che ieri ha annunciato il ritorno all’utile dopo cinque anni ma continua a navigare in acque difficili come del resto Commerz cui dovrebbe andare in sposa. L’idea tradisce più che altro un vuoto di idee e la stampa locale è critica. Su scala assai più ridotta in Italia si vagheggia di salvare Carige fondendola con il Monte dei Paschi di Siena. Come se l’unione tra due soggetti malati potesse generare una banca sana, vecchia storia. Prima delle elezioni si è discusso molto della creazione di due poli formati da Mps più Ubi e Bper-Carige-Creval. Oggi, dopo sei mesi di governo gialloverde, la traballante fiducia dei mercati nell’Italia e due trimestri di pil in calo hanno retrocesso quelle ipotesi a semplice wishful thinking. Se poi qualcuno pensava a un intervento dall’estero per rimettere in carreggiata Carige (si è parlato di fondi specializzati dai nomi esotici, come JC Flowers, Lonestar, Cerberus), la serie di emendamenti in chiave punitiva dei banchieri (come la creazione di un fondo alimentato dai bonus dei manager a favore dei risparmiatori) presentati dai pentastellati al decreto sull’istituto ligure ha chiuso il cerchio.

 

Secondo un report di Standard&Poor’s dello scorso giugno “sulle fusioni si fanno più dibattiti che azioni”. “La febbre - scriveva l’agenzia di rating americana – è tornata di moda con la ripresa dell’economia europea e la pulizia nei bilanci, ma iniziative concrete sono premature”. Che la crescita sia una variabile chiave lo provano i dati: nel 2007 al picco del ciclo espansivo furono concluse operazioni per 458 miliardi di dollari, nel 2017 per 93. Le Banche centrali e la Banca centrale europea spingono verso un consolidamento dei sistemi bancari nazionali (meno verso operazioni transfrontaliere per non aumentare il numero delle banche “too big too fail”) e il pensiero mainstream è chiaro sul punto. In Europa ci sono troppe banche, se si pensa che l’americana Morgan Stanley ha un attivo pari alla somma di Deutsche Bank, Commerz Bank, Unicredit e Société générale messe assieme. I prolungati bassi d’interesse hanno ridotto la redditività e il mutato quadro tecnologico richiede massicci investimenti nell’informatica e in nuove tecnologie per i pagamenti. Aggregandosi le banche potrebbero ridurre i costi e diversificare il rischio di credito. Ma come spiega Mustier “le fusioni sono operazioni complesse, richiedono tempo”. E, peraltro, richiederebbero un contesto ambientale che non consideri i banchieri dei bankster, come recita il titolo di un libro del senatore grillino Elio Lannutti.

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