Giovanni Tria (foto LaPresse)

L'autodemolizione della manovra lascerà solo macerie per l'economia

Luciano Capone

Come si è innescato il meccanismo che tiene in piedi un simulacro della legge di bilancio

Roma. Un paio di mesi fa l’avevamo definita “la manovra di Banksy”, perché la legge di Bilancio gialloverde – proprio come l’opera dell’artista britannico recentemente venduta all’asta – include un meccanismo di autodistruzione. In una delle sue varie risposte alla Commissione europea, infatti, il governo si impegnava a ridurre il deficit “qualora i rapporti debito/pil e deficit/pil non dovessero evolvere in linea con quanto programmato”. In pratica il governo si era impegnato, se le cose fossero andate peggio del previsto, a ridurre il deficit in anticipo, introducendo così un automatismo pro-ciclico e contraddittorio rispetto all’impostazione della manovra: il disavanzo, che era ciò che doveva produrre la crescita, sarebbe stato ridotto se la crescita non fosse aumentata a sufficienza.

   

Questo meccanismo di autodistruzione sarebbe dovuto entrare in funzione in corso d’anno, quando cioè nei primi mesi del 2019 la crescita si sarebbe dimostrata ben inferiore dell’1,5 per cento indicato nel Documento programmatico di Bilancio. Ma l’impianto della manovra gialloverde è talmente nocivo per l’economica che il meccanismo si è attivato addirittura prima dell’approvazione, facendo a pezzi l’impostazione originaria. Così dall’annuncio fatto dal balcone di Palazzo Chigi l’Italia ha subìto tutti i danni di una manovra in deficit – in termini di aumento dello spread e dei tassi di interesse, di fuga di capitali e perdita di valore in in Borsa – senza neppure avere quel deficit che il governo è stato costretto a ridurre dopo il confronto con Bruxelles.

   

Insieme al deficit è stata abbassata anche la previsione di crescita, dall’1,5 all’1 per cento. Questo però è solo uno dei primi effetti dell’opera di autodemolizione della legge di Bilancio. Per rispettare lo sforzo da 10,3 miliardi richiesto da Bruxelles, Lega e M5s sono intervenute su tutte le loro misure non solo depotenziandole, ma annullandone l’efficacia. Tagli consistenti, circa 3 miliardi, hanno riguardato gli investimenti, che nella logica pseudo-keynesiana delle forze di governo dovevano essere il fattore su cui si puntava di più per la crescita. Tra gli investimenti “ad alto moltiplicatore” eliminati ci sono anche 600 milioni di fondi destinati alle Ferrovie, che dovevano servire a potenziare le linee regionali sempre messe dal M5s in contrapposizione all’alta velocità.

  

Oltre agli investimenti pubblici vengono colpiti anche quelli privati, con l’azzeramento del credito d’imposta per l’acquisto di beni strumentali (200 milioni). Per le imprese, che già nella prima versione della manovra venivano caricate di 6 miliardi di tasse in più, c’è anche l’abrogazione del credito d’imposta Irap (113 milioni) per chi assume lavoratori a tempo indeterminato nel Mezzogiorno. Al Sud sarà sempre più costoso assumere, ma arriverà chissà in quale forma il reddito di cittadinanza: vuol dire che sarà sempre più costoso lavorare, mentre diventerà sempre più conveniente lavorare in nero o non lavorare affatto. Questo aumento dei costi per chi assume a tempo indeterminato va in netto contrasto con gli obiettivi dichiarati dal “decreto dignità”, che ha aumentato il costo dei contratti a tempo determinato per spingere verso rapporti di lavoro stabili. Alla fine il costo del lavoro aumenta per tutti, tranne per chi rientra nel regime dei minimi con la cosiddetta mini-flat tax, cosa che può portare all’esplosione delle false partite Iva (ovvero più precarietà).

 

Resta la famosa “quota cento”, che era stata spacciata come una misura per il ricambio generazionale: escono gli anziani ed entrano i giovani. Ma ora il governo per risparmiare prima, con il sistema delle finestre, rallenta l’uscita verso la pensione e poi, con il rinvio delle assunzioni nella pubblica amministrazione (100 milioni di risparmi), blocca l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro. Ancora una volta da un lato si incentivano le persone per non lavorare (pensionamenti) e dall’altro si risparmia non facendole lavorare (blocco delle assunzioni). A tutto questo si aggiunge, in contrapposizione alle promesse sulla “flat tax” della Lega, l’aumento della pressione fiscale: più tasse quest’anno, molte più tasse nei prossimi due anni (52 miliardi di calusole di salvaguardia sul'Iva). Più spesa corrente e meno investimenti, più deficit e meno crescita. Si è innescato così un meccanismo che per tenere in piedi un simulacro della manovra iniziale comporta l’abbattimento dei pilastri su cui è stata edificata. Alla fine resteranno solo le macerie.

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali