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Alitalia, cosa vogliono fare Lega e 5 Stelle

Renzo Rosati

“Allacciate le cinture e aprite il portafoglio”. A seguire Salvini e Di Maio si rischia di volare con lo stato 

Roma. Allacciate le cinture: dopo quella parziale che si profila per Tim, spunta in caso di governo 5 stelle-Lega una ri-nazionalizzazione vera, a carico del contribuente e del debito pubblico come ai vecchi tempi. Parliamo di Alitalia, il cui ritorno al rango di compagnia di bandiera quale è stata fino al 2008 è nei piani sia di Matteo Salvini, che ha affidato la pratica al suo consigliere economico Armando Siri, sia di Luigi Di Maio, il quale prende tempo (“voglio vedere i conti”) ma ufficiosamente è contrario alla cessione, strizzando l’occhio ai dipendenti, ai loro sindacati e all’indotto di circa 10 mila persone concentrato principalmente tra Roma e la Campania. Aree strategiche per i post-grillini.

  

Il rinvio di sei mesi deciso dal ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, per valutare le tre offerte giunte al governo uscente alla deadline del 10 aprile – Lufthansa, EasyJet e alleati, l’ungherese WizzAir, nessuna interessata a prendersi l’intera azienda – passa la palla a un eventuale esecutivo statalista e nazionalista.

   

“L’Alitalia non va svenduta agli stranieri, all’Italia serve una compagnia di bandiera”, ha ripetuto Salvini in campagna elettorale. I dettagli gli snocciola Armando Siri sia sul suo canale YouTube sia nelle trattative su programma e poltrone del futuro governo. “Per anni – dice Siri – l’Alitalia è stata una delle più grandi e redditizie compagnie aeree del mondo, un vanto del paese. E’ solo quando sono arrivati i privati che, tagliando le rotte, si sono ridotti il fatturato e gli utili. Per di più ai privati i governi hanno concesso la ripulitura dei debiti o prestiti-ponte come oggi. Allora meglio riportare tutto allo stato”. E poi, continua Siri, c’è il turismo: “Se vogliamo davvero investirvi, così come nel traffico business al nord, non si può fare a meno di controllare Alitalia”. Per il consigliere di Salvini c’è anche un aspetto, diciamo così, più vasto, legato alla fallimentare esperienza di Etihad: “La globalizzazione è in mano agli arabi, Alitalia batteva bandiera islamica come molti alberghi di lusso nel mondo”. Ma Siri, dal 2014 a fianco di Salvini, ha della ex compagnia di bandiera un ricordo abbellito dal tempo. L’azienda è andata in crisi nei primi anni 90, chiudendo in attivo industriale e finanziario solo i bilanci 1997-98. Ben prima della privatizzazione. E questo a causa della liberalizzazione del trasporto aereo che solo tra il 1995 e il 2005 ha raddoppiato il traffico mondiale mettendo in ginocchio le aziende più concentrate sul mercato domestico e con maggiori costi di esercizio.

  

In Europa Swissair, Sabena, Virgin, Malev e molte altre hanno chiuso i battenti; Iberia, Olimpic, Air Lingus sono passate in mani più forti; British, Lufthansa e parzialmente Air France e Klm si sono salvate privatizzandosi. Quanto al turismo –nel 2008 (sempre sotto elezioni) cavallo di battaglia di Silvio Berlusconi per mantenere Alitalia nelle mani tricolori dei “capitani coraggiosi – i dati dimostrano che il collegamento non esiste. Fiumicino e in particolare Malpensa hanno avuto nel 2017 l’anno boom con 42 e 20 milioni di passeggeri, seguiti da Bergamo e Venezia: ma Alitalia ha pesato per il 39 per cento a Fiumicino, per il due a Malpensa, per zero a Bergamo, per il 5 a Venezia. Il vero impulso è stato dato da low cost come easyJet (che a Malpensa ha un proprio terminal da 8 milioni di passeggeri) e dalle risanate Lufthansa e British.

  

Un esperto di crisi aziendali come Riccardo Gallo, docente alla Sapienza, sostiene che il governo Gentiloni ha messo del suo per aggrovigliare la situazione; in particolare Calenda: “Il ministro aveva due opzioni – dice al Foglio – Utilizzare il commissariamento in base alla legge Prodi modificata, o in base alla legge Marzano che fu scritta ad hoc per la Parmalat. Nel secondo caso, pur con ruberie degli azionisti, l’industria è sana, il che ne giustifica la vendita per intero. Nel primo il commissario liquida gli asset, anche a pezzi, ripagando i creditori e valorizzando quanto c’è di buono. Non si capisce perché Calenda abbia scelto la vendita per intero, irrealizzabile, se non perché si era in campagna elettorale”. Idee che hanno già provocato piccate telefonate e twitt del ministro (“pose ultraliberiste di un signore che è stato all’Iri e all’Istituto per la promozione industriale, una delle più inutili agenzie statali della storia”). Ma mentre i liberisti polemizzano, gli statalisti avanzano. Con il tandem Di Maio-Salvini si prepara il ritorno di Alitalia sotto controllo pubblico, e poco importa che fino a pochi anni fa la Lega attaccasse le partecipazioni statali. Il problema sarà come. Chiuso l’Iri, resta la solita Cassa depositi e prestiti: che però non può diventare una holding di aziende decotte – il management precedente di Cdp disse no, minacciando le dimissioni, all’ex premier Enrico Letta – al massimo può agire a tempo limitato come azionista di minoranza di un partner privato. Né per Alitalia può essere evidentemente rivendicato l’“interesse nazionale”. Qualunque sia la strategia delle forze sovraniste, allacciate le cinture e aprite il portafoglio.