Foto di Geronimo Poppino via Flickr

Quante insensate mortificazioni sull'Italia nelle classifiche Wef

Marco Fortis

Siamo 42esimi per competitività. Ma davvero le nostre istituzioni sono peggiori del Ruanda e la Borsa armena è più efficiente?

Nel Rapporto sulla competitività 2017/18 del World economic forum (Wef) l’Italia guadagna una posizione, passando dal 43esimo al 42esimo posto, ma resta lontanissima dai big mondiali. Infatti, dietro alla piccola Svizzera che è prima assoluta in graduatoria, gli Stati Uniti sono secondi, la Germania è quinta, il Regno Unito ottavo, il Giappone nono, la Francia ventiduesima, mentre la Cina è ventisettesima. Precedono l’Italia persino la Russia, l’India e il piccolo Portogallo.

 

Considerando che il nostro paese vanta la settima migliore bilancia commerciale al mondo e addirittura la quinta escludendo l’energia, viene però subito da chiedersi come si combini la sua presunta scarsa competitività, evidenziata da indici come quello del Wef o altri analoghi, con i risultati conseguiti sul campo, specialmente nell’export dove se sei bravo o no si capisce subito, non è che te lo dice un indice. In effetti, più che un misuratore di competitività quello del Wef è (o pretende di essere) una specie di indice di attrattività per gli investitori esteri. Ma, anche vedendolo sotto questa luce, c’è da chiedersi se questo e altri indici simili riescano veramente a dare una fotografia delle reali condizioni economiche di un paese.

 

Il dubbio viene. Soprattutto se ci prendiamo la briga di analizzare i responsi dei sotto-indicatori che compongono l’indice generale del Wef. Tali sotto-indicatori sono ben dodici (a loro volta scomposti in tanti altri indici minori) distribuiti in tre blocchi principali: il blocco dei fattori di base della competitività/attrattività (istituzioni, infrastrutture, quadro macroeconomico, salute ed educazione primaria); il blocco dei fattori di sviluppo dell’efficienza (educazione superiore, efficienza del mercato dei beni, efficienza del mercato del lavoro, sviluppo del mercato finanziario, tecnologia, dimensioni dell’economia); e il blocco dei fattori di innovazione (livello di specializzazione dell’economia, grado di innovazione). Fin qui tutto bene. Il quadro dei fattori prescelti ha una sua logica, che si può anche condividere in linea generale. Ma poi quando l’indice del Wef cerca di “catturare” e di “misurare” tali fattori cominciano le stranezze, che nel caso dell’Italia sono a dir poco considerevoli. Specie se rapportiamo il nostro posizionamento mondiale nei vari sotto-indici rispetto ad altri paesi che, con tutto il rispetto, non sembra proprio plausibile che si collochino davanti a noi.

 

Evidenziamo subito che se l’Italia è inchiodata al 42esimo posto dell’indice generale del Wef non è per colpa delle infrastrutture (dove siamo ventisettesimi, ma anche qui, per la verità, ci sarebbe non poco da discutere visto che per qualità delle strade l’Ecuador figura ventinovesimo, il Marocco quarantatreesimo e l’Italia solo quarantacinquesima…). Né risultiamo poco “competitivi” a causa della salute e dell’educazione primaria (dove siamo venticinquesimi) o delle dimensioni dell’economia (dove siamo dodicesimi) o della sua specializzazione e sofisticazione (dove siamo venticinquesimi).

 

Ciò che realmente “affonda” l’Italia nell’indice del Wef sono soprattutto le istituzioni, l’efficienza del mercato dei beni, l’efficienza del mercato del lavoro e lo sviluppo del mercato finanziario, nonché il quadro macroeconomico generale. A ben vedere si tratta più o meno dei medesimi fattori critici che anche noi italiani riteniamo costituiscano degli elementi di freno per la nostra economia. Tuttavia, scorrendo attentamente le varie classifiche le nostre perplessità aumentano esponenzialmente, perché è vero che siamo oppressi dalla burocrazia e che la nostra Borsa non è molto sviluppata ma non avremmo mai pensato nemmeno nei momenti di maggiore pessimismo di essere così scarsi.

 

Infatti, nelle istituzioni politiche l’Italia è addirittura al 95esimo posto (per un confronto, il Ruanda è al 16esimo posto; il Ghana al 59esimo). Per efficienza del mercato dei beni l’Italia è al 60esimo posto (l’Armenia è al 35esimo; la Giordania al 51esimo). Per efficienza del mercato del lavoro l’Italia è al 116esimo posto (la Cambogia al 48esimo; la Colombia all’88esimo). Per sviluppo del mercato finanziario l’Italia è al 126esimo posto (il Montenegro al 47esimo; l’Uganda all’89esimo). Mentre per quanto riguarda il quadro macroeconomico (dove nell’indice Wef siamo penalizzati oltre ogni logica dal rapporto debito/pil) l’Italia è al 96esimo posto (il Nepal è al 31esimo; il Bangladesh al 56esimo).

 

Lasciamo ai lettori ogni ulteriore riflessione o commento. Così è la competitività, se vi pare…

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