Andrea Goldstein (Foto LaPresse)

La bassa produttività del lavoro è la minaccia per un'Europa sempre più vecchia

Alberto Brambilla

Studiare le ragioni della scarsa competitività sarebbe fondamentale. Soprattutto per i paesi con crescita demografica assente. 
Ma in Italia una commissione ad hoc non si è ancora fatta. "E non si farà prima delle elezioni", dice Goldstein

Roma. C’è (ancora) uno spettro che si aggira per l’Europa. E non è il comunismo e nemmeno l’euro. E’ la bassa produttività del lavoro, unita a una popolazione in costante invecchiamento, che limita la potenzialità di crescita continentale. Il calo della produttività nella zona euro è una tendenza costante che si è aggravata nella periodo post-crisi per poi manifestare un timido recupero solo negli ultimi tre anni. Indipendentemente dal metodo di misurazione, output per persona impiegata oppure output per ora lavorata, il risultato non cambia. Secondo la Banca centrale europea, la produttività per persona impiegata è scesa allo 0,5 per cento in media dal 2008 al 2016 rispetto a una media dell’1,1 per cento nella decade precedente la crisi economica. Nel periodo in cui la ripresa ha cominciato a manifestarsi a macchia di leopardo, prima in Germania e poi in Spagna, ovvero dal 2013 al 2016, il recupero è stato solo dello 0,6 per cento annuo in media. Quello che preoccupa è il futuro.

   

Per questa ragione nel 2015 il Rapporto dei “cinque presidenti” – il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker, il presidente del vertice euro, Donald Tusk, il presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem, il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, e il quello del Parlamento europeo, Martin Schulz – stimolava la creazione di Consigli nazionali per la produttività utili ad analizzare le politiche per l’innovazione, la formazione, il lavoro attraverso analisi indipendenti. In seguito il Consiglio europeo ha formulato una raccomandazione che invitava gli stati membri della zona euro a istituire gli enti con la riunione dei leader europei a Bratislava il 20 settembre 2016, circa un anno fa.

   

Studiare come potenziare la competitività nazionale diventa essenziale mano a mano che la popolazione invecchia dal momento che “da anni l’Europa sta commettendo una sorta di suicidio demografico collettivo”, come ebbe a dire il portoghese Vítor Constâncio, numero due di Mario Draghi che ha ribadito il concetto a Jackson Hole in agosto. Recenti studi indicano che il declino demografico europeo comincerà a impattare negativamente sulla produttività dal momento che porzioni crescenti della forza lavoro invecchieranno nei prossimi decenni senza che ci sia una rigenerazione di portata paragonabile. L’età del lavoratore condiziona la produttività per vari fattori come l’esperienza accumulata, il disallineamento delle conoscenze rispetto alle nuove tecnologie, e l’impatto della senescenza fisiologica sulle capacità fisiche e mentali. Da un lato, una forza di lavoro più matura ha più esperienza e ciò ha potenziali effetti positivi sulla produttività. Ma, dall’altro lato, più rilevante, le abilità della forza lavoro sono correlate con un bagaglio di conoscenze che diventa datato via via che la tecnologia evolve, e la penetrazione inevitabile dell’informatica si traduce in uno svantaggio potenziale. Se l’età della forza lavoro aumenta nel suo complesso, a maggiore ragione, si trasmetteranno effetti negativi sull’innovazione e sulla produttività. Secondo il Fondo monetario internazionale, la quota di lavoratori con più di 55 anni è prevista crescere “notevolmente” nei prossimi anni in particolare in Spagna, Portogallo, Grecia, Irlanda e Italia.

  

L’Italia è in una condizione più critica perché la povera demografia è un carattere che la contraddistingue nel panorama internazionale. Nel 2017 la quota di giovani è scesa ai livelli più bassi mai registrati, 13,5 per cento, mentre gli individui con più di 65 anni sono arrivati per la prima volta al 22 per cento, dice il Rapporto annuale Istat. La quota di forza lavoro con un’età tra i 55 e i 65 anni sarà il 25,8 per cento del totale nel 2035, ovvero il massimo tra paesi europei, secondo i calcoli del Fmi. Studiare la questione per l’Italia dovrebbe essere una priorità. Eppure la creazione di un Consiglio ad hoc a Roma non è ancora avvenuta, mentre già prima dell’estate sette paesi lo avevano designato, tra questi Francia, Olanda e Ungheria, e quasi tutti si stanno muovendo.

   

“Negli ultimi sei anni c’è stato un po’ di consenso sulla diagnosi delle criticità nazionali e su ciò che è necessario fare. La produttività rimane uno dei problemi, se non il problema dei problemi, da venticinque anni”, dice Andrea Goldstein, economista di Nomisma, che invoca la creazione del Consiglio per la produttività. Secondo Goldstein, ex Ocse e funzionario al Foreign investment advisory service della Banca Mondiale, l’unica “scusa” per non adeguarsi e creare un ente tecnico per approfondire il tema è il calendario politico visto che le elezioni si terranno probabilmente la prossima primavera. “A circa diciotto mesi dalla raccomandazione europea saremo in piena campagna elettorale. Eppure una buona maniera per iniziare la prossima legislatura – dice Goldstein – sarebbe un ragionamento condiviso sulla produttività. Perché in Italia dissentiamo su tante cose, mentre sarebbe meglio mettere tutti d’accordo sul fatto che capire da dove viene la insufficiente capacità di competitività e crescita italiana è una priorità. D’altronde – aggiunge senza celare sarcasmo l’economista del centro studi bolognese – mettere una istituzione che si occupa di produttività in un paese dove c’è il Cnel meno produttivo di tutti, avrebbe un senso. Si coinvolgerebbero le parti sociali per dialogare ma senza una logica consociativa. Oppure, visto che il Cnel non è stato abolito e costa, magari se gli trovassimo qualcosa da fare, in fondo, risparmieremmo”, conclude Goldstein con ironia.

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.