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Le virtù del motore tedesco

Alberto Brambilla

Lo scandalo dell’Auto diesel entra in campagna elettorale. Merkel ruba la scena a Schulz. La discussione non è sul passato ma sul futuro, e senza catastrofismi

Acirca un mese dalle elezioni per il rinnovo del Parlamento, la cancelliera tedesca, Angela Merkel, in corsa per il quarto mandato consecutivo, ha rilanciato la campagna elettorale con un attacco inedito all’industria automobilistica nazionale. Ultimamente il fiore all’occhiello della potenza industriale di Germania è afflitto dalla clamorosa indagine sui principali costruttori accusati, nei mesi scorsi, di fare cartello per gestire quasi ogni aspetto del settore dei motori diesel.

 

Dopo avere evitato commenti durante le meritate vacanze estive, Merkel è entrata nella disputa con il suo avversario, il socialdemocratico Martin Schulz. Schulz aveva accusato i manager dell’Auto di essersi dimenticati di gestire la transizione tecnologica verso la mobilità elettrica, spinta dagli investimenti dell’americana Tesla di Elon Musk e di altri costruttori tradizionali ormai in pista. “Grandi porzioni dell’industria dei motori hanno sciupato un incredibile capitale di fiducia”, ha detto Merkel parlando a un comizio della Cdu a Dortmund sabato scorso.

 

Gli strascichi degli scandali nel settore industriale più caro al popolo tedesco accendono il finale della campagna elettorale

Il consenso per il Partito conservatore di Merkel, la Cdu, è stabile al 38 per cento mentre quello per la Spd di Schulz è al 24 per cento in aumento di un punto rispetto a una settimana fa, secondo un sondaggio Emnid per il settimanale Bild, in vista delle elezioni del 24 settembre.

 

La crisi reputazionale della corporate Deutschland è iniziata due anni fa quando il campione nazionale Volkswagen, all’epoca primo costruttore mondiale, aveva ammesso di avere truccato i test sulle emissioni dei motori diesel, una tecnologia brevettata a fine Ottocento dall’ingegnere tedesco Rudolf Diesel, considerata “sporca” ma che in realtà emette nell’aria circa un quinto in meno dell’anidride carbonica rispetto alla benzina. Più critica e politicamente sensibile è stata l’indagine giudiziaria di quest’anno sul cartello tra i cinque principali costruttori – Volkswagen, con le affiliate Audi e Porsche, e le rivali domestiche Bmw e Daimler – per codificare ogni aspetto del settore diesel, dalle infrazioni sui motori fino al prezzo dei carburanti. L’inchiesta giudiziaria rivelata dal settimanale Spiegel nel mese di maggio non ha precedenti nella storia: in passato non sarebbe stata nemmeno concepibile la messa in stato di accusa del settore Auto che è considerato il gioiello di Germania. In riferimento alla sola Daimler, il caso ha impegnato la procura di Stoccarda – città considerata la “patria dell’automobile” – e la polizia anticrimine del Land del Baden-Württemberg con la partecipazione di 23 procuratori e 230 poliziotti per perquisire undici edifici della casa automobilistica nelle sue sedi tedesche.

 

Merkel ha voluto dimostrare di condividere la montante preoccupazione dell’elettorato per un settore simbolico, la cui umiliazione rappresenta una specie di psicodramma nazionale. Il settore automobilistico è il principale esportatore, impiega 800 mila addetti, e ricopre un ruolo centrale nella psicologia tedesca. Il Maggiolino Volkswagen, entrato in produzione nel maggio del 1955, è il simbolo del “boom” economico successivo alla sconfitta del nazismo nella Seconda guerra mondiale. In un recente sondaggio il 63 per cento degli intervistati lo ritiene il simbolo stesso del paese. Al secondo posto viene Goethe. L’Auto è molto di più di un mezzo di trasporto per i tedeschi: rispecchia le virtù rappresentative della popolazione quali efficienza, affidabilità e precisione, e di conseguenza eccellenza e supremazia. Virtù che la sequenza di scandali ha messo in forte discussione portando alla perdita del primato mondiale per numero di automobili vendute da parte del campione Volkswagen a favore della franco-nipponica Renault-Nissan, guidata dal manager brasiliano Carlos Ghosn, e di recente alleata con la giapponese Mitsubishi per essere leader globale.

 

Merkel e Schulz sono entrambi consapevoli che il settore auto tedesco è stato lento nell’abbracciare la conversione verso l’auto elettrica. Ma la transizione dall’auto a carburante e pistoni a una a batterie e motori elettrici potrebbe essere più vicina del previsto dal momento che è la tecnologia che catalizza gli sforzi dei costruttori tradizionali. “Il problema – ha detto Schulz, ex presidente del Parlamento europeo – è che stiamo vivendo una situazione in Germania in cui i manager che prendono milioni a Volkswagen, a Daimler, si sono addormentati e hanno dimenticato il futuro”. Schulz ha suggerito quindi di gestire la transizione tecnologica riservando quote prestabilite all’auto elettrica. La Francia di Emmanuel Macron ha da poco annunciato una svolta dirigista in senso ambientalista con l’idea di ridurre a zero la vendita di auto a benzina e gasolio entro il 2040.

 

Merkel accusa i manager dell’Auto di avere sprecato un enorme capitale di fiducia ma non demonizza l’industria e il diesel

Merkel rifiuta l’idea delle quote e sceglie un approccio pragmatico. Se da un lato ha accusato i manager di avere disperso un grande capitale di fiducia, dall’altro ha difeso il diesel e l’industria manifestando l’intenzione da parte dello stato di accompagnare il cambiamento tecnologico. “Quando le compagnie non riescono a farlo da sole, i governi devono stare dietro e fare andare avanti le cose”, ha detto. La linea Merkel si era capita un mese fa, quando esponenti governativi e delle principali case automobilistiche si erano riuniti al “diesel summit” di Berlino, com’è stato battezzato dalla stampa, con lo scopo di trovare un accordo che permettesse alle auto diesel di continuare a circolare senza infrangere i limiti delle emissioni consentiti. La cancelliera ha annunciato che prima delle elezioni generali inviterà a un incontro i comuni per discutere dell’utilizzo dei fondi concordati nel vertice sul diesel: circa 500 milioni di euro, 250 milioni da parte dello stato e gli altri 250 dei costruttori, per “migliorare i trasporti” delle città la cui aria è particolarmente inquinata dalle emissioni, riportava ieri l’agenzia Radiocor.

 

Come con l’apertura a sorpresa alle nozze tra omosessuali rapidamente approvata a giugno del Bundestag – cui Merkel aveva poi ribadito la sua contrarietà, lasciando però libertà di coscienza ai parlamentari – la cancelliera ambisce a togliere acqua alla propaganda elettorale dei partner di coalizione della Spd. La posizione della cancelliera può infatti fare presa sull’elettorato socialdemocratico perché produce una difesa della tradizionale teoria dell’“economia sociale di mercato” che tempera le forze del mercato libero con l’interventismo dello stato. Inoltre insistere sulla qualità dell’aria nelle città rispetta le promesse richiamate dal nuovo slogan elettorale della Cdu: per “una Germania in cui viviamo bene e felici”.

 

Per Merkel sarà lo stato a dovere guidare la transizione verso l’auto elettrica se i capitani di industria non sono affidabili per farlo

Giuseppe Berta, storico dell’industria dell’Università Bocconi, esperto di Automotive, ritiene che la serie di scandali sia il momento rivelatore e terminale del modello industriale tedesco visto che sono emerse pratiche collusive derivanti dal consociativismo tra aziende, politica e sindacati. “Già due anni fa si era compreso che la Germania era a un punto critico. Ora bisogna capire qual è il modello al quale vuole tendere in futuro: se quello di un capitalismo di stato ‘alla cinese’ di economia pianificata, in cui il partito di governo decide, oppure un modello di capitalismo americano dove invece è il mercato a indicare la via migliore per lo sviluppo, come vediamo con Tesla. Il modello ibrido, temperato, tra stato e mercato, è al capolinea”, sostiene Berta.

 

L’economia sociale di mercato al bivio: dirigismo alla cinese o capitalismo americano? La guida di Volkswagen in discussione

Il cuore del problema è in Bassa Sassonia, il regno di Volkswagen. L’ultimo capitolo dello scandalo della casa di Wolfsburg riguarda infatti le richieste di dimissioni all’indirizzo del premier del Land, Stephan Weil della Spd: resoconti di stampa dicevano che, all’indomani del dieselgate nel 2015, aveva edulcorato un suo discorso politico sulle sanzioni a Volkswagen secondo le indicazioni dell’azienda. Weil ha smentito ma è membro del board in virtù di una storica partecipazione del Land nell’azionariato della società, pari al 20 per cento dei diritti di voto. La Bassa Sassonia vanta questo privilegio dal 1960, quando Volkswagen è stata privatizzata: la politica può ottenere due posti in consiglio di sorveglianza e rappresentare una minoranza di blocco. “La rete di politici locali, sindacati e azionisti delle famiglie [Piëch e Porsche] che dominano il consiglio di sorveglianza è stata a lungo criticata dagli investitori non solo per tre scandali nell’ultimo decennio, ma anche per la bassa capacità di generare reddito rispetto ai concorrenti”, ha scritto l’editorialista del Financial Times Richard Milne il 10 agosto. La Spd ha a lungo dominato nel Land. E’ stato premier anche l’ex cancelliere ed ex leader socialdemocratico, Gerhard Schröder, sconfitto da Merkel nel 2005. Già membro del board di Volkswagen, Schröder oggi accusa la cancelliera di avere chiuso gli occhi di fronte agli scandali (“io avrei affrontato la questione personalmente”, ha detto al giornale svizzero Blick). Per qualsiasi politico tedesco è difficile pensare di recidere il legame tra politica e azienda dal momento che oltre due terzi del pil della Bassa Sassonia derivano da cinquanta società fornitrici del settore automobilistico, secondo la banca Nord LB, e Volkswagen impiega 100 mila lavoratori sul territorio. Finora solo il vicecapo della Cdu di Merkel in Parlamento, Martin Fuchs, ha osato tanto affermando che “lo stato deve stare fuori dalle aziende costruttrici di automobili”. Se la Baviera non è azionista di Bmw e il Baden-Württemberg non lo è di Daimler, non si capisce perché la Bassa Sassonia dovrebbe esserlo di Volkswagen. Nessuno aveva messo in discussione il presidio della politica in Volkswagen, temendo di rischiare di andare a sbattere contro un muro con un attacco frontale. Tuttavia sarebbe un segnale incredibile per il mercato se lo stato dovesse vendere il 20 per cento delle quote trasformando Volkswagen da una società con un sistema di governo singolare a una normale azienda con un sistema di governo moderno.

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.