Una roccaforte espugnata

Cosa ci dice sulla salute dell'industria europea il caso della vendita di Opel

Alberto Brambilla

GM non ha detto a Merkel di voler vendere Opel ai francesi di Psa. Quei rischi di un Europa senza “campioni”

Roma. Il governo tedesco di Angela Merkel è furibondo con l’americana General Motors (Gm) che non ha comunicato a Berlino l’intenzione di vendere il malandato marchio Opel al gruppo francese Psa (Peugeot e Citroen), che ha tra i soci lo stato francese (Sogepa) e i cinesi di Dongfeng. Con Opel, Psa potrebbe tallonare come quota di mercato europea (16 per cento) il campione tedesco Volkswagen (24). Mentre Gm conferma l’intenzione di focalizzarsi sul mercato americano – e una futura intesa con Fiat-Chrysler assume consistenza – il governo Merkel appare vulnerabile nell’anno elettorale che vede gli avversari social-democratici avanzare nei sondaggi e risulta indifeso da operazioni alle quali è contrario, di vendita o di fusione che siano. Già quando si parla di acquisizioni, le offerte ostili verso società quotate sulla Borsa tedesca sono possibili, anche se non frequenti. E, come afferma un rapporto dello studio legale Allen&Overy, nonostante un pregiudizio diffuso che considera la Germania come una roccaforte inespugnabile, “le compagnie tedesche hanno un arsenale molto limitato per opporsi a una scalata”. L’arma principale è di solito l’ostilità del governo.

 

Ad esempio, nel 2009 quando la neonata italo-americana Fiat-Chrysler di Sergio Marchionne intendeva proporre un’offerta per la tedesca Opel, la vibrante opposizione della cancelliera Merkel bastò a fermare il progetto di creazione di un player euro-americano dell’Automobile. “Quello sarebbe stato un grande gruppo ed era una grande idea di Marchionne – dice Giuseppe Berta, storico dell’Industria all’Università Bocconi e studioso delle vicende di Fiat – Un giorno probabilmente diremo che è stata un’opportunità perduta soprattutto per l’Europa: mentre General Motors era in panne, Chrysler con Fiat e Opel avrebbe potuto creare un vero gruppo sovranazionale con una fisionomia molto europea e la testa in America. Avremmo avuto un gruppo con un pedigree europeo e con una stazza tale da competere nel mondo”, dice Berta, il quale non crede all’opposizione dell’establishment tedesco verso la vendita di Opel che considera piuttosto “di facciata e in chiave elettorale” verso un fatto compiuto e necessario per il marchio dell’Assia da tempo in crisi. Tuttavia quando si tratta di asset con una presenza geografica mondiale e con un tratto particolarmente sensibile (relativamente al rischio di diventare trasferimenti tecnologici non consigliabili) il governo tedesco può fare ben poco perché viene soverchiato dagli Stati Uniti. Ad esempio, il 24 ottobre scorso il governo tedesco aveva deciso – a sorpresa – di negare l’approvazione del takeover del produttore di chip Aixtron da parte del fondo cinese Fujian Grand Chip Investment per via di “questioni relative alla sicurezza prima sconosciute al governo”, disse il viceministro dell’Economia Matthias Machnig.

 

Il secco stop sembrava irrituale visto che la Cina è tra i primi investitori in Germania. E infatti era dovuto alle ingerenze americane – in carica c’era il democratico Barack Obama a fine mandato – viste le attività non secondarie di Aixtron negli Stati Uniti. La decisione derivò dall’opposizione del Committee on Foreign Investment in the United States (Cfius), il comitato che valuta gli investimenti esteri in America, presieduto dal Tesoro. La Germania, diceva il New York Times, è infatti particolarmente vulnerabile dal momento che molte delle imprese più avanzate – e appettibili per i cinesi che ricercano tecnologia e know-how – sono di dimensioni piccole o medie (Mittelstand) e sono aggredibili con spese esigue. La compagnia di robotica Kuka, nota per i suoi bracci meccanici di colore arancione diffusi negli stabilimenti automobilistici, è stata comprata dalla cinese Midea. Osram Licht, società di semiconduttori e bulbi a led di Monaco, potrebbe presto passare a un consorzio cinese perché l’acquisizione ha passato il vaglio Antitrust in diversi paesi e il Cfius americano ha dato il via libera. La vulnerabilità delle imprese europee grandi o piccole alle ingerenze delle due principali potenze mondiali, Cina e Stati Uniti, è il corollario della mancanza di campioni continentali con una presenza paneuropea e una potenza finanziaria relativa.

 

Si possono annoverare tra le imprese con diffusione europea solo le compagnie aeree low-cost RyanAir e EasyJet e poco altro. “Il grande vantaggio di avere un mercato unico – dice Andrea Giuricin, docente di economia dei trasporti all’Università Bicocca di Milano – è di potere fare economia di scala e di raggiungere una massa critica tale da potere competere con Cina e Stati Uniti ad armi pari. Ma nonostante alcune acquisizioni transnazionali, pensiamo Enel sulla spagnola Endesa o alla francese Edf in Italia, non sembra che ci sia questa mentalità nemmeno presso la Commissione europea e nei governi dei paesi membri”. E’ un atteggiamento comune dei governi europei e dei rispettivi media nazionali quello di esaltare le proprie aziende quando fanno acquisizioni all’estero e, al contrario, di gridare all’invasore quando sono altri a farlo. La fusione tra la francese Essilor e Luxottica, da 50 miliardi, aveva fatto scattare l’allarme rosso sui media d’oltralpe. L’Echoes sollevava il problema di “una difesa della nostra industria da appetiti esterni che inciampa su una mancanza di fondi e di un arsenale adeguato” ed elencava fusioni intraeuropee (Holcim, svizzera, su Lafarge nel cementiero – Nokia, svedese, su Alcatel-Lucent nelle telco) e acquisizioni americane (General Electric su Alstom nell’ingegneria energetica – Fmc su Technip nel settore petrolifero) senza alcuna distinzione.

 

Il problema di una carenza di strategia avanzato dal quotidiano francese è identico a quello proposto dai media italiani nel caso dell’aggressione di Vivendi su Mediaset – mentre in America At&t e Time Warner si preparano a creare un gigante mondiale dei contenuti media – e Telecom Italia, inutilmente presidiata per anni dalla holding Telco (Generali, Intesa Sanpaolo, Mediobanca) e poi presa dal gruppo di Vincent Bolloré senza che l’esecutivo di Matteo Renzi potesse evitarlo. Per non parlare del recente e penoso tentativo, abortito, da parte di Intesa di prendere e difendere le Generali. O del pietoso processo di vendita dell’acciaieria Ilva, contesa da una cordata tricolore con la Cassa depositi e prestiti e l’indiana Jindal Steel e dal primo gruppo europeo ArcelorMittal, frutto di plurime fusioni franco-belga-indiane in un decennio. Se la “strategia” rimarrà quella della difesa nazionale tra stati membri, in ottica campanilistica, è difficile chiamarla strategia quando si gioca in Europa. 

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.