Pier Carlo Padoan (foto LaPresse)

Il rebus Padoan

Stefano Cingolani

Il ministro dell’Economia è tosto o, come dice Renzi, poco tosto? Porta sulle spalle tante croci ma non tutte le colpe sono sue

Sarà anche “poco tosto” come ha detto di lui Matteo Renzi, ma certo non è autolesionista. Pier Carlo Padoan ha rimandato al mittente l’idea balzana di una manovra correttiva di 3,4 miliardi, che in clima pre-elettorale sarebbe davvero come spararsi sugli alluci. E’ vero, ha promesso di rimettere mano ai conti perché su questo i cerberi di Bruxelles hanno ragione: non tornano. Non è solo il calcolo del dare e dell’avere, la crescita del prodotto lordo non riesce ancora a superare un punto percentuale, il debito non scende, la produttività ristagna. Dunque, qualcosa Padoan farà, c’è sempre l’eterna risorsa di tassare benzina e sigarette, però sarebbe la volta buona per disboscare la giungla delle prebende ereditata da un frenetico Renzi in lotta con se stesso e con il mondo intero per vincere il referendum sulla riforma costituzionale. Potrebbe essere la merce di scambio per evitare una stangatina o una procedura di infrazione da parte dell’Unione europea. La revisione delle mance scatterebbe con la prossima Finanziaria, tuttavia l’impegno verrebbe già scritto, nero su bianco, ad aprile nel Documento di economia e finanza, quindi prima delle elezioni politiche.

 

Non è tosto Padoan, ma questa volta non può mollare. Era riuscito a diventare il ministro più popolare, poi come sempre succede, le lancette di questi sondaggi sono tornate a girare. Un colpo se lo è inflitto da solo quando non ha saputo tener testa durante “Porta a Porta” al solito Matteo Salvini che gli chiedeva il costo di un litro di latte. L’economista diventato ministro ha vacillato. Eppure sarebbe stato semplice ribattere con un’altra domanda: quale latte e dove? Perché i prezzi variano da città a città, da negozio a negozio, da latte a latte: intero, magro, parzialmente scremato, senza lattosio, di montagna, di pianura, della centrale, tutto italiano, a lunga conservazione e via via mungendo. Questa è la realtà dell’Italia, dove non c’è il prezzo politico né il calmiere. Un paese che certo è uscito a pezzi dalla crisi, ma non è tornato alle tessere per il latte e il pane come i populisti vorrebbero far credere.

 

Poco tosto Padoan? Certo poco reattivo in tv, a differenza di Renzi, vero tribuno del piccolo schermo. I due non possono essere più diversi. C’è un gap generazionale pari a un quarto di secolo, e c’è una differenza su tutto, a cominciare dal carattere e dalla formazione intellettuale. Il ministro del Tesoro è una persona cortese, per lo più calma e cauta, ha un lungo e brillante curriculum accademico, parla benissimo l’inglese (con una leggera inflessione americana e la erre moscia), non ama lo scontro, preferisce raggiungere il consenso ogni volta che è possibile.

 

Intendiamoci, Renzi non ha tutti i torti, Padoan è apparso spesso accondiscendente sia con Bruxelles sia con Francoforte, d’altra parte è stato scelto proprio per questo da Giorgio Napolitano: garantire l’Unione e non disturbare la Banca centrale, combinando la rottamazione renziana con le compatibilità europee. L’uno taglia e l’altro ricuce, uno di giorno disfa la tela e l’altro di notte la tesse di nuovo. Una divisione del lavoro che sembrava perfetta, ma non lo è stata. Renzi nel 2014, precipitato di gran carriera alla guida del governo, non aveva alternative: tra gli uomini a lui vicini nel mondo dell’economia e degli affari, nessuno ha una esperienza istituzionale all’estero come quella di Padoan (dal Fondo Monetario di Washington all’Ocse di Parigi) né un curriculum tecnico-politico così equilibrato (economista vicino al Partito comunista, ne aveva accompagnato la metamorfosi, era stato anche alla Fondazione Italianieuropei con Massimo D’Alema nonché consulente di Palazzo Chigi).

 

I problemi si sono manifestati molto presto, già in vista delle elezioni europee. E qui bisogna ricordare la mesta parabola di Carlo Cottarelli, tecnico di prim’ordine, conoscitore del bilancio pubblico italiano, anche per averlo spulciato a lungo quando era responsabile del Fondo monetario internazionale. Scelto da Enrico Letta come commissario straordinario per realizzare una revisione della spesa pubblica, arriva il 13 ottobre 2013 con un contratto triennale e resta in carica solo dodici mesi, torna a Washington, scrive un libro a futura memoria intitolato “La lista della spesa”. La sostanza è racchiusa in una frase: “Mentre io cercavo di tagliare, approvavano misure che facevano aumentare la spesa”.

 

Il 18 marzo 2014 il quotidiano Il Tempo pubblica in esclusiva 72 slide con tutte le proposte di Cottarelli che, secondo Renzi, dovevano restare chiuse a chiave nel cassetto di Graziano Delrio, allora sottosegretario di Palazzo Chigi, fino alla presentazione del Documento di economia e finanza. Tra le misure, molte delle quali di buon senso e fattibili, c’è anche la revisione delle pensioni più elevate. Apriti cielo. Interviene Renzi e porta ai giornalisti le sue slide. Le altre sono solo ipotesi di un esperto. Tradotto dal politichese: non valgono una cicca. Del resto, c’è da prepararsi alla prima prova del fuoco: le elezioni europee del 25 maggio. La vittoria clamorosa mostra che aveva ragione il politico, il tecnico aveva già esaurito la sua spinta propulsiva.

 

Di spending review si continua a parlare (parole, parole, parole), nasce una task force non al ministero dell’Economia, ma presso la presidenza del Consiglio, affidata a Yoram Gutgeld, manager di scuola McKinsey, e Roberto Perotti, bocconiano di ferro. La vulgata è che i tagli sono stati realizzati: ben 25 miliardi di euro, dice lo stesso Padoan il quale aggiunge che più di così non si può fare. È vero? Scoppia una polemica tra esperti. Perotti non regge molto e se ne va, scrive anche lui un libro intitolato “Status quo”, nel quale presenta una tabella molto eloquente e conclude: “La revisione non c’è stata”. E’ vero che la spesa lorda nel 2016 è stata ridotta di 25 miliardi di euro, però il totale dei capitoli di spesa è aumentato di 20 miliardi. Con una mano si prende e con l’altra si dà. I risparmi netti scendono a 4,5 miliardi, ma teniamo conto che 5 miliardi sono dovuti a minori trasferimenti. Il tecnico ha le sue ragioni, tuttavia la politica s’impone. Il 2016 è l’anno del referendum sulla riforma costituzionale. E il governo decide di aumentare di un punto percentuale il disavanzo pubblico rispetto al prodotto lordo. E’ Padoan a infiocchettare il pacco per Bruxelles, spera di dare una spinta alla crescita e arrivare all’autunno con il vento in poppa. Non succede. Il ministro ripete: la ripresa c’è, anche se non si vede; verrà, adesso arriva, siamo sopra lo zero, ci avviciniamo all’un per cento. Le cifre lo smentiscono in continuazione e comincia così l’uggiosa querelle sugli zero virgola.

 

È andata male, c’è stata anche tanta sfiga, tempeste inattese, vento in coda, persino il terremoto nell’Italia centrale. Si sono spaccati gli Appennini, roba da apocalisse geologico. Ma non c’è dubbio che la politica fiscale, quella sì, è stata poco tosta. Il 7 giugno 2016 Padoan annunciava a Porta a Porta che la pressione tributaria sarebbe scesa al 40 per cento del prodotto lordo entro la fine della legislatura nel 2018. Ma nel 2016 la quota di reddito assorbita in media dal Leviatano è stata ancora del 43 per cento; per arrivare all’obiettivo annunciato dal ministro occorrono 50 miliardi, ricorda Perotti. La promessa di rivedere al ribasso le aliquote sui redditi slitta sine die: “Domani, e poi domani, e poi domani – declama Macbeth roso dal rimorso – il tempo striscia, un giorno dopo l’altro a passetti, fino all’estrema sillaba del discorso assegnato e i nostri ieri saran tutti serviti”. Sono arrivati i bonus, gli 80 euro, quelli per i bebè e via di questo passo. L’impatto sulla domanda interna è stato modesto (e questo l’aveva detto subito la Banca d’Italia) anzi quasi nullo: i denari concessi non sono stati spesi, bensì risparmiati per i tempi bui.

 

Renzi ha ragione su un punto: occorreva avere meno timore di sfidare l’Unione europea a inizio mandato, ma non doveva farlo lui, trionfatore alle elezioni europee? Glielo avevano suggerito Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, due grilli parlanti, non due gufi: meglio sfondare subito il tetto del 3 per cento, spingere in alto il prodotto lordo e prendere seri impegni di rientro nei prossimi tre anni, accompagnati da chiare e immediate riforme strutturali. A Bruxelles avrebbero strepitato, forse anche Mario Draghi avrebbe tirato gli orecchi, ma bisognava approfittare dell’occasione. Invece, neppure riforme di per sé coraggiose (anche se talvolta abborracciate) servono ad ammansire i guardiani dell’austerità; nemmeno il Jobs Act, l’operazione più ardita e riuscita che il centro destra cosiddetto liberale e liberista non ha avuto il coraggio di fare. Le riforme costano (anche in termini di consenso elettorale, come s’è visto) e con il passare dei mesi diventa affannoso trovare le coperture. L’unico aiuto è venuto dalla Bce: i tassi d’interesse a zero e l’avvio del quantitative easing sono un balsamo fondamentale per le ferite italiane, 90 miliardi di euro risparmiati in tre anni. Inoltre c’è la flessibilità. Checché ne dicano le opposizioni di destra e di sinistra, Padoan riesce a ottenere un risultato niente male: 19 miliardi in più. Dunque, di riffa o di raffa le risorse non sono mancate. Come sono stati utilizzate? Non esiste finora un chiaro rendiconto, nonostante il tanto parlar di trasparenza, certo è che non sono servite a ridurre la spesa pubblica e le distorsioni maggiori nel bilancio dello stato. Mance elettorali dicono le opposizioni. E adesso tocca trovare un rimedio.

 

Intanto scoppia la tempesta bancaria. Il sistema è sano, non c’è bisogno di intervento pubblico né di bail-in: Padoan lo dice a ridosso del referendum. E insiste ancora (“Per Mps né aiuti, né nazionalizzazione, né bail-in”, spiega il 12 ottobre), poi si smentisce clamorosamente: il 22 dicembre viene varato il salvataggio pubblico: 20 miliardi messi a disposizione dal governo per la banca senese e le altre in difficoltà. Dunque, per anni è stato ripetuto un leitmotiv che suonava falso fin dall’inizio. Secondo la versione ufficiale i guai non derivano da un sistema bancario anchilosato e arretrato, che non fa profitti e non ha abbastanza capitale per potersi sentire ragionevolmente al sicuro; no, il problema è la lunga recessione, la crescita che stenta ad arrivare e i crediti deteriorati dal mancato sviluppo. Già, ma chi ha concesso quei prestiti e quando? Sono piovuti dagli elicotteri come la moneta nel paradosso di Milton Friedman?

 

Le banche italiane si sono presentate all’appuntamento con l’integrazione europea già appesantite da prestiti difficilmente recuperabili e da una arretratezza di fondo rispetto alle concorrenti. Lo scrisse Enrico Cuccia nel 1997, dati alla mano (anche se volle che la sua nota restasse anonima e riservata): i crediti incagliati, quelli in sofferenza più il fondo svalutazione, raggiungevano un importo largamente superiore alla metà del patrimonio complessivo delle banche. Non solo, le prime cinque aziende creditizie italiane avevano un utile netto pari al 3 per cento dei proventi a confronto del 21 per cento di quelle inglesi, del 15 per cento di quelle olandesi, del 10 per cento di quelle tedesche. Debolezze tutt’altro che congiunturali, che non sono cambiate nel decennio successivo. La crisi del 2007-2008 e la lunga e profonda recessione le hanno aggravate.

 

I governi italiani hanno scelto di non intervenire. I salvataggi dovevano essere “di mercato”, una convinzione ripetuta da Renzi e da Padoan. Il ministro dell’Economia, tuttavia, si è reso conto che non ci sarebbe stata nessuna soluzione radicale senza un intervento strutturale che liberasse le banche dalla massa di crediti “marci” (circa 200 miliardi ancora a fine 2016). Così, ha tentato di dar vita a una bad bank con garanzia pubblica, ma è stato respinto con perdite da Bruxelles ed è dovuto ripiegare verso una soluzione più modesta, con interventi caso per caso. La battaglia l’ha condotta e ha perduto; ha vinto Margrethe Vestager, commissaria alla Concorrenza, una dottrinaria con scarso senso politico.

 

Padoan è stato poco tosto? I suoi amici dicono che è stato troppo solo. A Palazzo Chigi nessuno aveva una chiara idea della situazione, tanto meno ci si rendeva conto che la Bce aveva cambiato le regole del gioco. Solo nell’ottobre del 2015 il governo si accorge che dal primo gennaio 2016 i fallimenti bancari li avrebbero pagati anche i risparmiatori. Secondo Ignazio Visco, governatore della Banca d’Italia, bisognava prevedere una applicazione flessibile. In realtà, la carta della flessibilità era già stata giocata per aumentare il deficit pubblico. Il bail-in sembrava una questione tecnica della quale nessuno a Palazzo Chigi aveva la minima idea. La frettolosa liquidazione delle quattro banchette del centro Italia è figlia di questa svista, mentre la caduta della Banca Etruria sollevava un polverone attorno al padre di Maria Elena Boschi e i suoi legami pericolosi con l’istituto di credito aretino.

 

Il dibattito sulla sconfitta al referendum è ancora tutto da fare. Finora si è discusso sul cattivo carattere del premier (come se Trump e Putin, i nuovi idoli dei popoli in rivolta, abbiano un buon carattere). Bisognerebbe esaminare anche quanto hanno pesato la mancata ripresa e la crisi bancaria. Che cosa ha bloccato la crescita, perché sono state sottovalutate le cattive condizioni del sistema creditizio? Il fondo Atlante è stato un tentativo anche generoso (tutto a carico di banche e assicurazioni), ma non è riuscito. Il piano JP Morgan-Mediobanca per il Montepaschi è saltato anche se Padoan è stato costretto a chiedere la testa dell’amministratore delegato Fabrizio Viola per conto di Renzi (gli americani lo chiamano fare il “dirty job” il lavoro sporco). Appena Renzi ha lasciato Palazzo Chigi, è arrivato il salvataggio pubblico. Adesso tutti dicono che si poteva fare prima, addirittura nella primavera scorsa. Del senno di poi sono piene anche le banche. Probabilmente Padoan ne era convinto, però non è stato abbastanza “tosto” per imporlo. Non sarebbe cambiato molto, né avrebbe vinto il Sì al referendum, sia chiaro. Ma almeno tra i quattro amici al bar, davanti all’aperitivo, si sarebbe finalmente parlato solo di donne e motori.

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