Sergio Marchionne con il ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan (foto LaPresse)

Urge una “rivoluzione bancaria” oppure il credito ci travolgerà

Alberto Brambilla
Politica concertativa, sindacati tosti, banchieri pilateschi. Serve un’opera di verità e di coraggio come con Fiat. Nemmeno risparmi da record e tassi bassi smuovono le banche. Idee per una rupture nel credito.

Roma. Sergio Marchionne ha lasciato il settore bancario nel 2010 per dedicarsi soltanto all’automobile. Chiamato per consigliare a Ubs come mitigare l’impatto della crisi finanziaria, è stato vicepresidente non esecutivo per due anni. Eppure all’industria bancaria italiana gioverebbe un suo clone – o meglio servirebbe un’operazione di verità e coraggio della stessa magnitudo di quella portata dal manager italo-canadese in Fiat e in Confindustria un decennio fa. Marchionne ha rilanciato Fiat dimostrando che l’industria delle industrie sa cavalcare una crisi economica feroce.

 

Per la finanza italiana non si può dire lo stesso. E’ qualcosa che né i vertici bancari né i sindacati vogliono sentirsi dire, muovendosi in concertativa sintonia. Quando Matteo Renzi a Cernobbio aveva avvertito che su 328 mila bancari rischiano, in 10 anni, di andare a casa in 150 mila per colpa dell’arretratezza sistemica della nostra industria del credito di fronte all’informatizzazione, alla globalizzazione, tanto le sigle sindacali quanto l’Abi hanno semplicemente protestato, alternando minacce di sciopero generale (i sindacati) alla minimizzazione del problema (il business dei banchieri).

 

Le centrali sindacali sono sulle barricate. Eppure lo studio di Prometeia “Previsione nei bilanci bancari” di ottobre 2015, prima delle crisi più recenti, stima in almeno 27 mila gli esuberi in tre anni “derivanti da piani industriali, tagli annunciati, fusioni, processi di digitalizzazione”. Si aggiunge il caso Unicredit, seconda banca italiana, che ha innalzato a 6.900 i tagli programmati in Italia; e questo con il vecchio management, con quello nuovo vedremo. Un’altra analisi di pianoinclinato.it, sito di divulgazione economica, mette a confronto la capitalizzazione delle banche quotate con il numero dei dipendenti: la media del numero della copertura dei dipendenti con il capitale è di 0,156, quindi è plausibile un eccesso di dipendenti in rapporto alla capitalizzazione. Spiccano i casi positivi di Intesa (0,292), Credem (0,284) e Popolare di Sondrio (0,311) e quelli negativi di Unicredit (0,089), Carige (0,05) e Mps (0,031). Deutsche Bank ha un rapporto capitalizzazione/dipendenti di 0,157. In America la Pacific Western ha il record di 4,3, è leggera: molto capitale e poco personale.

 

Tuttavia, sottocapitalizzate e con organici gonfiati, le banche italiane siedono sulla miniera d’oro di circa 4 mila miliardi di risparmio finanziario delle famiglie, primo d’Europa, che però il management pare non sapere sfruttare appieno. La vulgata condivisa dalla Banca d’Italia e dall’Abi per cui i crediti deteriorati sono cresciuti sostanzialmente a causa della recessione è autoassolutoria e non spiega tutto. Nel 2007 le indagini empiriche di Luca Giordano (Consob) e Antonio Lopes (Università di Foggia) per la rivista Studi economici (Franco Angeli) dimostrarono che la cattiva allocazione del credito è il risultato diretto dell’inefficienza della banca a scegliere i piani di investimento e a selezionare i clienti. Banca Popolare di Vicenza con il dominus Gianni Zonin ha spesso prestato soldi a persone che compravano azioni della banca. Banca Etruria, prima del commissariamento del 2015, aveva 13 consiglieri su 15 quasi a digiuno di banca.

 

I tassi bassi o azzerati in questi mesi stanno poi fornendo un alibi ai banchieri per contestare la politica superaccomodante della Bce che comprimerebbe i margini di guadagno. I clienti potrebbero dire di peggio, senza tirare per la giacchetta Mario Draghi. Un’indagine Bocconi pubblicata dal Corriere della Sera rivela che il passivo medio in assenza di fido costa ai clienti il 18 per cento, l’attivo offre lo 0,003: altro che spread. E’ un quadro che in apparenza dovrebbe consentire alle banche di campare di rendita. Eppure mancano due cose fondamentali: il mercato e l’appetito per il rischio. Non avendo previsto gli effetti della crisi – nonostante i loro uffici studi – le banche non avevano mai rafforzato gli argini specializzando il personale per gestire i casi critici e ora, per dire, il Monte dei Paschi si ritrova con una sessantina di persone a classificare le sofferenze.

 

Con un lavoro di selezione della clientela più approfondito – e non soltanto affidato ai rating automatici – forse non si sarebbe costruito un “Everest” di Npl: oggi correggendo il tiro si possono cercare profitti selezionando i clienti che presentano caratteristiche non perfette ma promettenti – “rendono” pure di più ma servono un po’ di coraggio e molta competenza per seguirli; tassi bassi o meno. Per non parlare della transizione alla finanza tecnologica, la trasformazione della banca in “App” che farà scomparire la banca tradizionale (e per questo viene ritardata). Comunque la si guardi un rivoluzione s’impone. Come se dieci anni fa Marchionne avesse puntato solo sui clienti Fiat, sui modelli e sulla qualità produttiva delle fabbriche di allora, senza immaginare fusioni su vasta scala (con Chrysler) o innovazioni di prodotto (l’alleanza per la Google Car). Non è solo questione di riforme, che non mancano, ma di attitudine. Il sistema però s’oppone: l’ha sempre fatto, dalle privatizzazioni di Carlo Ciampi e Mario Draghi fino alla trasformazione delle popolari in società per azioni con Renzi. Mancano, salvo eccezioni, manager marchionneschi e sindacati coraggiosi; il che evoca lo spettro degli “esodati” prossimi venturi a carico della collettività, i bancari appunto.

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.