“Meno tasse per tutti” è abusato ma funziona: in economia e in democrazia

Marco Valerio Lo Prete
La critica più utile che si può muovere al governo non è quella di aver tagliato le tasse per soddisfarre alcuni potenziali elettori, ma di non averne tagliate abbastanza – di Marco Valerio Lo Prete

Roma. C’è tempo fino al 30 giugno per dichiarare di non essere in possesso di una televisione ed evitare così il pagamento del canone Rai, pari a 100 euro, che d’ora in poi sarà addebitato nella bolletta elettrica. E se da qui a fine mese il governo decidesse di rinviare il pagamento al 2017 per ragioni tecniche? O se ritenesse di abolirlo tout court in vista della privatizzazione di una rete Rai? I comunicati di indignazione degli avversari sono già scritti: “Renzi è alla canna del gas e con l’abolizione del canone tenta di comprarsi il consenso in vista del referendum costituzionale!”. Piccola obiezione: se pure questo fosse il retropensiero del presidente del Consiglio, e non si fatica a crederlo, ciò forse intaccherebbe la bontà dell’abolizione del canone, cioè una mini-patrimoniale un po’ grottesca che ricorda da vicino la tassazione indiziaria pre-moderna? La risposta è no.

 

Vale per gli 80 euro, per gli sgravi sui contratti di lavoro a tutele crescenti e per la cancellazione della Tasi (ex Imu) sulla prima casa: in democrazia i voti, le menti e i cuori si conquistano anche utilizzando la leva del fisco. La critica più utile che si può muovere al governo non è quella di aver tagliato le tasse per soddisfarre alcuni potenziali elettori, ma di non averne tagliate abbastanza, o di non essersi impegnato in riduzioni di spesa corpose per rendere più credibili gli sgravi. In democrazia, imputare a un governo di ricercare il consenso degli elettori è un’accusa che lascia il tempo che trova. Certo, al bonus di 80 euro per i redditi medio-bassi sarebbe stata preferibile una più lineare rimodulazione degli scaglioni Irpef, ma ciò non rende automaticamente la scelta compiuta una mera opera di rincretinimento di massa dei contribuenti. Non foss’altro perché osservatori come Banca d’Italia e lavoce.info hanno calcolato che il bonus è stato speso in consumi, eccome. Sul Jobs Act, i critici aspettavano al varco i dati sull’occupazione del 2016: “Vedete – osservano – appena gli sgravi si assottigliano, diminuiscono le assunzioni”. Possibile, probabile. Laicamente però, prim’ancora che addebitare una truffa elettoralistica all’esecutivo, verrebbe da dire che abbiamo riscoperto l’acqua calda: in presenza di un costo del lavoro più basso, le imprese assumono più volentieri. Allora, caro governo, bravo, bis! Renzi e Padoan affamino la bestia per prolungare e rafforzare lo sgravio in questione. Questo sarebbe un discorso di verità da parte di chi si candida a un’alternativa di governo e di chi dunque si confronterà con lo stesso problema che attanaglia oggi Renzi: la coperta è corta, le risorse sono limitate, dove mettere le poche che ci sono?

 

“Meno tasse”, in un paese in cui imposizione fiscale e spesa pubblica già valgono la metà del pil, è sempre meglio che “più spesa”, perfino se indirizzata nell’ormai epico “sociale”. Secondo Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, “meno tasse” sarebbe l’unica buona ragione per fare oggi un po’ di deficit in più, altro che masterplan per il sud o redditi di cittadinanza. Anche le parti sociali farebbero bene a entrare in quest’ottica, invece che bollare prima come spot elettorale l’abolizione dell’Imu e subito dopo chiedere meno tasse per la propria categoria, come hanno fatto ieri i giovani di Confindustria. Il ragionamento tipico, purtroppo, è che le tasse del vicino sono sempre più basse delle proprie e quindi meritevoli di essere innalzate, e che gli sgravi del governo in carica sono sempre e soltanto dei trucchi elettorali. Politicismi di corto respiro, dietro i quali si è riuscita finora a camuffare l’inesorabile avanzata dello stato tassatore. 

Di più su questi argomenti: