Il premier Matteo Renzi (foto LaPresse)

Oltre la rottamazione

Non è col Partito della spesa che Renzi vincerà il referendum di ottobre

Marco Valerio Lo Prete
Tutti i bonus annunciati (o solo pensati) costerebbero uno sproposito. I criteri e i conti per scegliere al Mef e a Palazzo Chigi.

Roma. Pensione anticipata per i nati dopo il 1951, rivalutazione dei trattamenti pensionistici in essere, bonus per le pensioni minime, bonus per i bebè, riduzione strutturale del cuneo fiscale, dell’Irpef, dell’Ires sulle imprese, abolizione del bollo auto e il tutto con un tocco di investimenti pubblici e una spruzzata di risorta concertazione sindacal-confindustriale. A sommare da una parte i più recenti retroscena giornalistici e dall’altra i ballon d’essai lanciati da vari esponenti del governo, presidente del Consiglio incluso, sembrerebbe segnata la strada verso il referendum costituzionale di ottobre: un’alleanza de facto con il Partito della spesa per piegare almeno alcune delle resistenze. Ma è davvero una strada percorribile? Ed è auspicabile? Infine: è questo il piano che Renzi ha in mente? Le risposte sono rispettivamente “no”, “no” e “nì”.

 

Capitolo “fattibilità contabile”. L’insieme delle suddette misure fiscali costerebbe non poco. Anzi, molto. Si stima per esempio che il solo taglio di 4-6 punti percentuali dei contributi previdenziali per i neoassunti a tempo indeterminato farebbe mancare 1,5 miliardi di gettito fiscale; se poi la riduzione del costo del lavoro dovesse essere estesa a tutti i dipendenti stabili, a mancare sarebbero fino a 2,5 miliardi di euro. Per raddoppiare il bonus bebè, come ipotizzato dal ministero della Salute, ci vorrebbero altri 2,2 miliardi. Mercoledì Repubblica scriveva che alzare di 80 euro le 3 milioni di pensioni minime costerebbe quasi 3 miliardi. E così via, fino a 20 miliardi e oltre. Il governo Renzi ha spuntato molta “flessibilità” sui conti pubblici in Europa, ma per la prossima legge di Stabilità valgono pur sempre le leggi della gravità.

 

I più ottimisti si cullano con le parole di Carlo Cottarelli, rappresentante dell’Italia al Fondo monetario internazionale: è sufficiente lasciare la spesa pubblica così com’è e il pareggio di bilancio si raggiungerà nel 2019. Tuttavia al ministero dell’Economia osservano che, anche conteggiando tutta la flessibilità accordata da Bruxelles per l’anno in corso, il prossimo autunno rimarrà necessaria una manovra di ammontare pari allo 0,5 per cento del pil (8 miliardi circa) per mantenere la promessa di un rapporto deficit/pil all’1,8 per cento nel 2017. Un pacchetto di mischia fatto di bonus e sgravi a 360 gradi smusserebbe tante asperità politiche anti referendum, ma evidentemente occorrerà scegliere al massimo uno o due piloni, per rimanere alla metafora rugbista. Introdurre un po’ di flessibilità sull’età pensionabile, ma pur sempre “nell’ambito della legge Fornero” (Renzi dixit), è in cima alla lista dei desideri di Palazzo Chigi (costo 1 miliardo circa). Poi ci sono Irpef e Ires. Difficile abbassare entrambe in maniera significativa.

 

Sarebbe davvero auspicabile, inoltre, puntare tutto sulla leva della spesa in deficit per sostenere la crescita? Perché di qualche sostegno certo c’è bisogno, come dimostrano i dati comunicati mercoledì dall’Istat: a marzo sia il fatturato sia gli ordinativi dell’industria sono diminuiti rispetto a febbraio, rispettivamente dell’1,6 e del 3,3 per cento. Detto ciò, nel momento in cui si ammette che la lunga battaglia ideologica intraeuropea sull’austerity è conclusa (copyright: Simon Nixon sul Wall Street Journal), con un armistizio caratterizzato da una politica fiscale neutra e non più restrittiva, rimane da dimostrare che un punto di deficit in più sia il toccasana per l’economia italiana. Logica vorrebbe, invece, che da qui a ottobre gli sforzi si concentrassero per risollevare la produttività del lavoro (l’Italia è infatti l’unico paese tra i grandi dell’Eurozona in cui questo indicatore è ancora al di sotto dei livelli del 2007) e competitività. Gli strumenti a costo zero per farlo non mancano: le liberalizzazioni bloccate in Parlamento, e poi il dossier della contrattazione aziendale. 

 

In estrema sintesi, le regalie spot sono da sconsigliare. Cosa ne pensa però l’animale politico Renzi? La tentazione di troncare e sopire fino a ottobre, anche a costo di spendere un po’, è forte, come dimostra tra le altre cose la riapertura di un tavolo di confronto con i sindacati. Mercoledì comunque lo stesso Renzi ha privilegiato toni riflessivi: “Non è il tempo degli annunci, ma dello studio serrato sulle carte”. In questo senso peserà la sponda possibile con il nuovo presidente della Confindustria, Vincenzo Boccia, che mercoledì ha auspicato un nuovo corso “non consociativo”, “no partisan e non bipartisan”, aperto al “rinnovamento del paese”. Chi conosce Boccia dice che tutto ciò assomiglia a un “sì” in vista del referendum di ottobre. E a Palazzo Chigi sentirsi meno accerchiati potrebbe placare la fregola spendacciona.