Cantiere Navale Ansaldo di Genova Sestri Ponente, 1931

Il virus dirigista delle classi dirigenti italiane, capitalisti inclusi

Stefano Cingolani
Politica industriale, tra presunzione fatale dei politici e desiderio di protezione dei privati. Il libro di Debenedetti “Scegliere i vincitori, salvare i perdenti” è la perversa combinazione tra una hybris infinita e una ideologia totalitaria. La conclusione ha inevitabili ricadute nelle scelte concrete dell’homo oeconomicus.

Perché mai pochi uomini al governo dovrebbero saperne più dei molti che ogni giorno lavorano, producono, scambiano merci, servizi e moneta in tutto il mondo? E’ la candida obiezione con la quale Friederich von Hayek mise con le spalle al muro gli statalisti. E da qui prende le mosse Franco Debenedetti per bocciare senza appello l’“insana idea”. “Scegliere i vincitori, salvare i perdenti”, come titola il suo libro, è la perversa combinazione tra una hybris infinita e una ideologia totalitaria. Un errore (talvolta fattosi orrore) che ha attraversato l’intero Novecento riproposto nel nuovo secolo, dopo i “fallimenti del mercato” manifestatisi con la grande crisi del 2008 e la lunga recessione che ha colpito l’Occidente (l’Europa più degli Stati Uniti). Fallimenti i quali, in realtà, sono anche frutto di scelte politiche come gli incentivi fiscali che hanno gonfiato la bolla immobiliare americana. Perché nel capitalismo contemporaneo, tra i due mondi (le due “metà del cielo” come le chiama Debenedetti), quello pubblico e quello privato, il confine è sottile ed estremamente poroso. La lettura del libro, nato come una requisitoria analitica contro lo statalismo vecchio e nuovo, porta a questa conclusione che ha inevitabili ricadute nelle scelte concrete dell’homo oeconomicus.

 


Franco Debenedetti (foto LaPresse)


 

Franco Debenedetti ha trascorso la sua carriera tra l’industria e la politica, dalla Olivetti alla Fiat a una lunga esperienza parlamentare nella sinistra politica; oggi presiede l’Istituto Bruno Leoni, il principale pensatoio liberista italiano e uno dei più stimati a livello internazionale. Ma la forza e l’interesse del suo ultimo libro non sta solo nella sua carica politico-ideale, bensì nella capacità di penetrare e raccontare eventi, episodi, grandi scelte industriali ed economiche, per sverlarne il filo conduttore, il rumore di fondo, quel basso continuo che mortifica il mercato perché non ci crede. Un convincimento ben radicato accomuna la classe dirigente italiana post-fascista, anche se risale a prima del ventennio nero: che il male originario sia aver costruito un capitalismo senza capitali. E’ ciò che spinge Enrico Cuccia a mettere insieme attorno a Mediobanca un complesso sistema satellitare per difendere le grandi famiglie del nord. Da chi? Innanzitutto da se stesse, dalle loro debolezze e incapacità, non solo dalle brame di una mano pubblica diventata invadente quando nella Democrazia cristiana prese il potere Amintore Fanfani che al primato dello stato nell’economia credeva fin dai suoi studi giovanili negli anni ’30.

 

Cuccia, il suocero Alberto Beneduce inventore dell’Iri, il mentore Raffaele Mattioli gran capo della Banca Commerciale, furono avversari della Dc fanfaniana, e si sfidarono anche sull’arena del mercato (pensiamo alla nazionalizzazione dell’energia elettrica e alla successiva Montedison). Eppure erano accomunati dalla sfiducia nelle capacità del mercato e del capitalismo privato. C’era, dietro, una idea di base, cioè che i paesi a sviluppo tardivo avessero necessariamente bisogno di protezione, di un sistema bancario che tenesse per mano quello industriale e di uno stato protettivo dalla culla alla tomba, intervenendo direttamente se necessario. Un modello teorizzato dall’economista russo-americano Alexander Gerschenkron che si era formato alla scuola austriaca (la stessa di Hayek) e aveva avuto notevole influenza intellettuale nel secondo dopoguerra. Una ispirazione comune lega la Germania bismarckiana, l’Italia crispina e poi giolittiana, il fascismo e il nazismo, lo statalismo marxista e persino l’economia sociale di mercato, ispirazione di fondo dei partiti cristiano democratici.

 

Guido Carli, che aveva mosso i primi passi all’Iri, era convinto che tra piano e mercato non c’era una contrapposizione di fondo. Nel 1977, quando era presidente della Confindustria, Carli nella “Intervista sul capitalismo italiano” a cura di Eugenio Scalfari (pubblicata da Laterza) dichiara: "Che sciocchezza contrapporre l’economia di mercato all’economia pianificata! Non esiste un sistema così intensamente pianificato quanto l’economia di mercato. Infatti in Italia l’economia di mercato è praticamente inesistente, proprio perché è del pari inesistente ogni elemento di programmazione generale”. In realtà, come aveva già scritto Hayek, il dilemma non è tra fare o non fare piani, ma tra affidarli a un’autorità politica centrale oppure a quel “sistema di telecomunicazioni” (Eamon Butler) nel quale siamo tutti pianificatori. Gli stessi fallimenti del mercato dei quali parla il libro sono frutto di questa impostazione dirigista. Ciò vale anche per il declino, la metamorfosi e poi l’estinzione della Olivetti salvata da Mediobanca e dalla Fiat, rilanciata da Carlo De Benedetti, diventata il nono produttore mondiale di computer e macchine per ufficio alla fine degli anni ’80, trasformata in azienda di servizi telefonici mobili e infine in scatola finanziaria. “Olivetti non ce la poteva fare”, sostiene Franco Debenedetti, né nell’informatica né nella telefonia. E’ un caso di scuola sulla debolezza del capitalismo tricolore e del sistema Italia.

 

Lo stato imprenditore diventa negli anni ’70 e nel decennio successivo, uno stato barelliere. Nel 1977 viene approvata la legge 675 sulla riconversione produttiva basata sulla destinazione selettiva delle risorse: viene lasciato al capo del governo e alla pubblica amministrazione il potere di decidere quale impresa o quale settore può ricevere i fondi pubblici. La legge 46 del 1982 che istituisce il fondo speciale rotativo per l'innovazione tecnologica ha una impostazione meno discrezionale, ma inutile negare che la fetta maggiore di risorse va ai grandi gruppi e soprattutto alla Fiat. Non è l’unica impresa privata ad aver ricevuto soldi pubblici, sia chiaro. Basti pensare a quanto è costato al contribuente italiano il disastro della chimica, quella privata e quella di stato. Eppure, è opinione comune che nessun'altra azienda automobilistica privata al mondo abbia intascato tanto dallo stato. C’è una cifra enorme che circola senza attribuzione precisa di fonti: 220 mila miliardi di lire, circa 100 miliardi di euro, in trent’anni, a cominciare dal 1975, mettendo insieme anche la cassa integrazione. E’ realistico? Cesare Romiti lo ha negato più volte buttando la palla avanti: “Tutta l’industria italiana è assistita, anzi senza la mano pubblica non ci sarebbe stata l’industria, non ci sarebbe stato il boom economico del dopoguerra e non saremmo mai entrati nel novero delle principali potenze industriali del pianeta, hai voglia ad aspettare la mano invisibile del mercato”.

 

L’aiuto fondamentale, in realtà, non è venuto soltanto dalla erogazione di moneta sotto le forme più disparate o dall'assistenzialismo meridionalista che ha spinto la Fiat a investire solo nel sud a partire dagli anni ’70-’80. La grande stampella, piuttosto, è stata il protezionismo. Le quote all’importazione di auto giapponesi sono durate fino agli anni ’90. A forza di acquisizioni più o meno favorevoli la Fiat è diventata l’unico produttore italiano. Per due volte un governo ha impedito alla Ford di entrare sul mercato: la prima con Mussolini, la seconda con Craxi quando l’Alfa Romeo è stata venduta alla Fiat. Tutto ciò non l’ha salvata dal tracollo. E oggi solo diventando multinazionale può sopravvivere e rilanciarsi. Lo stato imprenditore è finito in Italia con le privatizzazioni, l’operazione più massiccia realizzata in qualsiasi paese industriale, Gran Bretagna compresa. Il risultato non è stato sempre brillante, anzi in alcuni casi, come nell’acciaio, persino disastroso. Quanto a Telecom Italia resta, ricorda Debenedetti, “un’azienda privatizzata, non privata”. La vendita delle imprese pubbliche, si dice spesso, è avvenuta senza una politica industriale. E’ questa sarebbe la pecca principale. In realtà è stata fatta  senza prima liberalizzare e soprattutto senza un mercato dei capitali autonomo dalle banche signore e padrone, privatizzate per finta, mettendole in mano a degli “ircocervi” come le fondazioni di origine bancaria. Una scelta compiuta, si dice, proprio per mancanza di capitali sufficienti a garantire la solidità patrimoniale. E’ solo una parte della verità. L’altra è che le banche, con l’aiuto compiacente dei governi, hanno occupato la borsa e fagocitato i fondi di investimento. Il bancocentrismo, così, si è sostituito allo statalismo.

 

La politica industriale oggi sta tornando di moda anche in Italia e Debenedetti dedica tutta l’ultima parte a contestare “la politica industriale al tempo di Renzi”. In realtà, nel governo prevale una impostazione pragmatica che privilegia l’obiettivo allo strumento. Se proprio si dovesse trovare una ispirazione strategica si potrebbe dire che Renzi e i suoi consiglieri guardano più al modello americano: lo stato interviene quando i privati s’arrendono, ma con l’obiettivo di risanare e riportare l’impresa sul mercato. Una terza via, un paradigma intermedio? Forse una strada senza alternative.