Conferenza stampa presso il Fondo Monetario Internazionale (foto LaPresse)

Pulizia di mercato

Marco Valerio Lo Prete
L’Economist ha appena scritto che il capitalismo clientelare – quello che deve il proprio successo economico alle relazioni con il potere politico e non invece alla libera concorrenza – è in ritirata in tutto il pianeta. “Crony capitalism”, lo chiama il settimanale inglese, letteralmente “il capitalismo degli amici”.

Roma. La legge di natura del capitalismo è la diseguaglianza crescente (copyright: Thomas Piketty e discepoli). L’attuale “economia liquida tende a favorire la corruzione come mezzo per ottenere profitti” (copyright: Papa Francesco). L’economia è “rigged”, cioè truccata, in modo da agevolare solo un piccolo gruppo di oligarchi (copyright: Bernie Sanders e Hillary Clinton). E questo è soltanto un breve campionario della cattiva stampa di cui oggi gode l’economia di mercato, capitalistica e globalizzata. Non c’è da sorprendersi, dunque, se in Italia è stato praticamente ignorato un recente tentativo – per quanto autorevole – di segnalare invece una tendenza positiva del mercato globale. L’Economist, infatti, ha appena scritto che il capitalismo clientelare – quello che deve il proprio successo economico alle relazioni con il potere politico e non invece alla libera concorrenza – è in ritirata in tutto il pianeta. “Crony capitalism”, lo chiama il settimanale inglese, letteralmente “il capitalismo degli amici”. E’ la formula consacrata, nel mondo anglosassone, fin dal 24 agosto 1981, quando George M. Taber, caporedattore della rivista Time, la utilizzò per titolare una inchiesta sull’economia delle Filippine ai tempi del presidente Marcos. “Perché ‘crony capitalism’? L’allitterazione suonava bene”, ha raccontato successivamente Taber. 

 

L’Economist torna a parlarne adesso, non con un semplice articolo ma con un corposo dossier. Secondo il “crony capitalism index” del settimanale, la ricchezza che è oggi nelle mani di questi oligarchi vicini al potere politico è pari all’incirca a 1,75 trilioni di dollari, in calo del 16 per cento dai 2 trilioni che erano stati stimati nel 2014 dalla stessa rivista. Gli autori selezionano i miliardari della lista stilata da Forbes, dopodiché li dividono in due gruppi, “crony” o “non crony”, sulla base del settore in cui sono più presenti. Si va con l’accetta, per stessa ammissione dell’Economist. Sono “crony” infatti tutti coloro che si sono arricchiti smodatamente per aver operato in settori come gioco d’azzardo, estrazione di materie prime (petrolio, gas, carbone, olio di palma, legno e altre commodity), difesa, istituti di deposito e banche d’investimento, infrastrutture, telecomunicazioni. Nonostante l’ampiezza della platea considerata, la ricchezza di natura clientelare arriva all’1,5 per cento del pil nei paesi di antica industrializzazione e al 4 per cento nei paesi emergenti (era al 7 per cento nel 2008). In termini assoluti, la Cina è il paese leader nella classifica di quelli che una volta sarebbero stati chiamati “robber barons”, con 360 miliardi di dollari di patrimoni di natura clientelare. Se invece si tiene conto del pil, la classifica è guidata dalla Russia, con Malesia e Filippine sul podio. Tra i 22 paesi dell’indice stilato dall’Economist, gli Stati Uniti sono al 16esimo posto, e la Germania con il suo 22esimo posto è il paese meno clientelare. L’Italia non è considerata, e con tutta probabilità i criteri utilizzati dall’Economist non intercetterebbero comunque profitti garantiti da forme di favoritismo politico, seppure non in misura tale da entrare nella classifica Forbes (si pensi a tutte le professioni non liberalizzate).

 

Se l’economia mondiale è sempre meno rigged, cioè truccata, lo si deve sia a scelte politiche sia alla fisiologica distruzione creatrice connaturata al mercato. Nella prima categoria di meccanismi anti capitalismo clientelare rientrano tanto le liberalizzazioni indiane quanto le campagne persecutorie e anti establishment del presidente cinese Xi Jinping. Alla voce “distruzione creatrice”, invece, l’Economist cita “il clima economico che si è fatto avverso per i cronies. I prezzi delle materie prime sono crollati, riducendo il valore di miniere, acciaierie e concessioni petrolifere”. Ieri, sulla scorta dell’ennesimo rallentamento di Pechino, si è registrato l’ultimo scivolone delle quotazioni di rame, ferro e petrolio. Cattive notizie per tanti rentier connessi alla politica in giro per il mondo. Inoltre, conclude l’Economist, “sono cadute le valute e le azioni di Borsa dei paesi emergenti, e il lungo boom immobiliare in Asia si è arrestato”. La ritirata del capitalismo clientelare non è definitiva, noi non viviamo certo nel più giusto dei mondi, ma un po’ di pulizia il mercato l’ha fatta.