I fondi alla ricerca scappano dall'assenza di valutazione in Italia

Francesco Lippi
Follow the money. Professore dell’Einaudi Institute for Economics and Finance studia sette anni di finanziamenti Erc per capire come riformare l’università e lagnarsi meno.

Fino a qualche giorno fa pochi italiani conoscevano lo European research council (Erc), una prestigiosa istituzione comunitaria che dal 2007 distribuisce consistenti finanziamenti alla ricerca avanzata nel campo delle scienze naturali, sociali ed umanistiche. Questi grant sono un preciso termometro della qualità della ricerca avanzata perché sono assegnati esclusivamente sulla base dei meriti scientifici del progetto da commissioni composte da esperti scienziati che valutano anonimamente i progetti. Tutti, nel mondo della ricerca avanzata, conoscono lo Erc. Da qualche giorno anche il grande pubblico ne ha sentito parlare, quando il ministro dell’Istruzione, Stefania Giannini, si è rallegrata dei buoni risultati degli studiosi italiani che si sono aggiudicati 30 grant Erc nell’ultima valutazione annuale. Una linguista italiana che lavora in Olanda, vincitrice di uno dei grant, ha però ricordato alla ministra come non ci fosse molto da festeggiare: solamente 13 di questi progetti saranno sviluppati in Italia, gli altri saranno condotti presso istituzioni di altri paesi europei. Per contro, nel nostro paese non arriverà nessun grant dal resto d’Europa.

 

Uno sguardo ai primi 7 anni di attività Erc aiuta a farsi un'idea della situazione. L’Erc ha finanziato complessivamente circa 4.300 progetti, 407 dei quali vinti da ricercatori con passaporto italiano. Di questi solo 229 sono stati portati in Italia. Significa che i rimanenti 178 vincitori “italiani” o si trovavano all'estero o hanno scelto di trasferircisi per sviluppare il proprio progetto. Infine, in questo periodo l’Italia ha accolto solamente 24 ricercatori da altri paesi. Un confronto con la Francia, paese a noi simile per demografia e reddito, mostra che dei 498 finanziamenti ottenuti da studiosi “francesi”, ben 417 sono rimasti nel paese. La Francia ospita inoltre 154 progetti di studiosi non-nazionali. Tra i paesi grandi, con cui dovremmo ambire a confrontarci, svetta il Regno unito che ha un totale di 969 progetti, di  cui 433  fanno capo a ricercatori non-nazionali. Riassumendo: l’Italia trattiene appena il 56 per cento dei fondi vinti dai suoi nazionali, contro il 64 per cento della Germania, l’84 della Francia, l’88 del Regno Unito. Il quadro peggiora se si considera che, a fronte del deflusso, il paese attrae pochissimi cervelli: i progetti gestiti da non-nazionali sono il 10 per cento in Italia, contro il 30 per cento di Francia e Germania, il 45 del Regno Unito.

 



 

La tavola mostra che tra i quattro grandi paesi Ue l’Italia è l’unico esportatore netto di cervelli (i valori della seconda riga superano quelli della prima). La fuga di cervelli con qualifiche eccezionali comporta perdite ben più grandi della immediata perdita di finanziamenti fuggiti altrove. La ricerca e l’innovazione sono importanti perché è proprio da lì che arrivano il progresso del sapere e la crescita economica nelle economie sviluppate. Un paese che non ha la capacità di trattenere e far crescere il proprio migliore capitale umano è un paese destinato a rimanere sempre più indietro. Svettano, come esempi positivi, alcuni piccoli paesi come Israele, Olanda e Svizzera la cui capacità di ospitare cervelloni è impressionante.

 

[**Video_box_2**]Perché l’Italia non è ambita dai ricercatori, nemmeno da quelli che i fondi li hanno? Con qualche piccola eccezione, il motivo è che la gestione del progetto e dei fondi sono in Italia meno efficaci che altrove. Un ricercatore che conferisce 2 milioni di euro a un istituto viene accolto a braccia aperte in un paese che funziona. In molti posti gli si offre una cattedra, un buono stipendio, buoni laboratori. Nel sistema Italiano, con pochissime apprezzabili eccezioni, non succede. Ci si dovrebbe adoperare per farlo. Non è impossibile e alcuni piccoli centri di ricerca ci stanno riuscendo, offrendo ai ricercatori che vincono le prestigiose borse Erc (italiani e non) la possibilità di avere una cattedra subito e un impegno finanziario per un altro periodo alla fine del progetto. Per estendere il fenomeno a livello nazionale serve una volontà politica forte e chiara di riconoscere il merito scientifico, come quello certificato dai grant Erc e da altre valutazioni, come quella dell’Anvur (Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca). La ministra dovrebbe incatenarsi alle porte del suo dicastero e pretendere strumenti amministrativi per premiare il merito, assieme alle risorse finanziarie per farlo. Purtroppo negli ultimi dieci anni i fondi destinati alla ricerca e all'universita' nel nostro paese sono stati drasticamente ridotti. Un governo che taglia i fondi alla ricerca mentre rimuove le imposte sugli immobili è un governo miope, che elargisce favori alle vecchie generazioni a spese di quelle future. I fondi destinati quest'anno dall'Italia ai Progetti scientifici di rilevanza nazionale (Prin), fermi dal 2012,  ammontano a 92 milioni, circa un terzo del costo del “bonus cultura” concesso ai diciottenni in novembre. Sarebbe stato più efficace spendere quei soldi per offrire ai diciottenni un futuro, piuttosto che qualche sconto a cinema e librerie, il cui ritorno (non-elettorale) è tutto da dimostrare. Serve subito un aumento dei fondi destinati alla ricerca, accompagnato da regole a favore del merito e dal rafforzamento delle istituzioni preposte alla sua valutazione. La distribuzione premiale delle risorse sulla base delle valutazioni faticosamente condotte dall’Anvur è un tentativo di riforma nella giusta direzione. Ma la valutazione serve a poco se non si torna a investire su università, ricerca e innovazione, antidoti essenziali al declino culturale ed economico del nostro paese.

 

L'autore è professore di Economia all’Università di Sassari

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