Le mosse di Cina e Giappone per navigare la crisi petrolifera

Gabriele Moccia
Stati Uniti e Regno Unito incentivano lo sviluppo dello shale gas cinese, mentre la nipponica Mitsui comincia ad adocchiare gli asset petroliferi sotto stress messi in vendita dalle major

Roma. Nonostante la difficile tempesta finanziaria in corso, Pechino è intenzionata a proseguire la sua strategia di sviluppo sullo shale gas (gas di scisto) e il tight oil (petrolio non convenzionale) attraverso le tecniche della fratturazione idraulica, fracking. Martedì scorso, infatti, una delle principali compagnie energetiche statali, la Sinopec, ha avviato la produzione relativa al più grande progetto di shale gas del paese, relativo al giacimento di Fuling, nel bacino del Sichuan. Come confermato anche dalle autorità energetiche del paese, la Cina ha estremo bisogno di innovare il suo sistema energetico nei prossimi cinque anni, diventando un vero hub del gas.

 

Entro il 2020, secondo Nur Bekri, presidente della National Energy Administration, Pechino dovrà completare i processi di industrializzazione 4.0 e integrare le proprie rete per distribuire in maniera efficiente l'output elettrico. I piani cinesi sullo shale trovano, del resto, un sempre crescente interesse da parte degli Usa. La stessa produzione di Fuling deve molto all'apporto della tecnologia americana, come ha ammesso anche Yang Guosheng, il general manager della Sinopec. Dopo una serie di errori, le nostre squadre hanno cominciato ad utilizzare tecniche di posizionamento geologico dei pozzi di shale utilizzati dalle compagnie statunitensi, ha ricordato il funzionario. La chiave di questa collaborazione è lo Us-China Oil and Gas Industry Forum (Ogif), che ora punta a nuovi investimenti.

 

[**Video_box_2**]Lo scorso settembre si è tenuto l'ultimo round del forum, occasione per riunire attorno ad un tavolo la stessa Sinopec, con gli attori americani più stimolati a potenziare i giacimenti di gas del paese asiatico, Chevron, ConocoPhillips, General Electric e Fluor. Secondo Derek Scissor, ricercatore all'American Enterprise Institute, negli ultimi due anni le compagnie cinesi avrebbero investito dai 12 ai 14 miliardi di dollari per accedere alla tecnologia americana del fracking. Chevron, che è una delle big americane che ha investito di più sul gas della Cina (quasi 7 miliardi di dollari), è presente proprio nel bacino dello Sichuan. La joint venture energetica tra Pechino e Washington ha aiutato la Cina a ridurre sensibilmente i costi per le perforazioni, secondo la China National Petroleum Corporation (Cnpc) nel 2015 il costo medio per perforare i bacini orizzontali di shale gas è stato di circa 11-12 milioni di dollari per pozzo, il 23 per cento in meno rispetto ai costi medi stabiliti nel 2013.

 

Anche il governo inglese sembra intenzionato a scommettere sulla crescita dell'industria estrattiva cinese. Infatti, dopo il recente accordo multi miliardario tra Bp e la Cnpc per avviare una partnership globale, il cancelliere dello scacchiere George Osborne è tornato a parlare della necessità di costituire un fondo sovrano ad hoc per lo shale gas. L'idea non è nuova ma ora, le crescenti ostilità del mondo ambientalista sulle attività estrattive del Mar del Nord, potrebbero spingere le autorità britanniche a concentrare le attività del fondo, si parla di una capitalizzazione iniziale di circa 2 miliardi di dollari, per investire sullo shale cinese e australiano.

 

Che la nuova frontiera del mercato del gas sia quella asiatica, lo dimostra anche il rinnovato interesse di importanti istituti di trading giapponesi come Mitsui ad investire in assets deteriorati di petrolio e gas, potenzialmente riducendo la storica dipendenza da idrocarburi altrui del Giappone. Tempo fa, l'amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi, aveva lanciato un monito all'Europa sul sorpasso energetico dell'Asia. In occasione di una conferenza organizzata da Confindustria sulle prospettive del gas nel contesto europeo, il capo azienda del Cane a Sei Zampe  ha fatto cruda analisi dello scenario attuale, "vent'anni fa l'Europa produceva il 58 per cento delle sue necessità energetiche, in termini di gas, adesso copriamo il 35 per cento delle necessità, tra sette otto anni scenderemo al 18 per cento e con le politiche energetiche che considerano un delitto le trivellazioni non produrremo più niente", ha ricordato Descalzi, che ha poi chiosato, "In Europa non c'è stata una policy, abbiamo lasciato il mercato andare da solo, non è aumentata la produzione domestica di gas, è aumentato il carbone acquistato dagli Stati Uniti, che ci costa carissimo perché nel costo bisogna metterci anche le rinnovabili, abbiamo generato un mostro, con un mix energetico pazzesco". Insomma, se l'Europa rischia di non avere più gas, la Cina, in un futuro non troppo lontano, rischia di averne parecchio e a basso costo.

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