Quel tic tutto italiano per cui lo stato è (sempre) il salvatore di ultima istanza

Alberto Brambilla
La risacca del populismo anti-bancario stringe il governo tra i “poveri risparmiatori” e Bruxelles

Roma. Centinaia di clienti delle quattro banche regionali salvate dal fallimento con un recente intervento legislativo del governo hanno protestato domenica scorsa davanti al Parlamento. Sono alcuni degli azionisti e degli obbligazionisti di Cassa di Risparmio di Ferrara, Banca Marche, Banca Popolare Etruria e Lazio, Cassa Risparmio di Chieti penalizzati dalle modifiche introdotte il 16 e 22 novembre scorso alla legislazione bancaria nazionale, in ossequio alle direttive comunitarie. Si prevede che a subìre le perdite per evitare il default di un istituto siano gli azionisti e alcuni degli obbligazionisti subordinati, mentre correntisti e – fino al gennaio 2019 – obbligazionisti ordinari sono salvaguardati.

 

L’Italia ha introdotto, e per la prima volta applicato, uno schema di risoluzione delle crisi bancarie in cui sono coinvolti solo i privati, senza soldi pubblici. Ma ora proprio i clienti penalizzati, definiti grossolanamente “risparmiatori” dalla stampa, invocano l’aiuto dello stato per recuperare dalla collettività quello che considerano il maltolto. Le proteste e la grancassa mediatica rappresentano una sorgente di pressioni all’indirizzo dell’esecutivo. Renzi è stretto tra i “risparmiatori” che chiedono soldi alla collettività e la contestuale impossibilità di concederli perché la Commissione europea avrebbe ragione di obiettare. Il decreto emanato per evitare il fallimento di quattro banche medie dell’Italia centrale – istituti malgestiti per anni e poi commissariati dalla Banca d’Italia – accoglie la direttiva su risanamento e risoluzione delle banche (“Bank recovery and resolution directive”). Le perdite vengono inflitte ad alcuni dei possessori di obbligazioni subordinate e agli azionisti, ma in ultima analisi a farsi carico dei salvataggi è l’intera industria bancaria nazionale. Nel dibattito mediatico è stata concessa poca enfasi al fatto che il Fondo di risoluzione per le banche salvate è finanziato con una linea di credito iniziale da 3,6 miliardi di euro da parte di Unicredit, Intesa Sanpaolo e Ubi banca; si aggiungeranno poi le altre banche con sede legale in Italia e le succursali italiane di banche extracomunitarie. Chi dovrebbe risentirsi non sono gli obbligazionisti subordinati che hanno sottoscritto strumenti con un rischio medio-alto delle banche di cui si fidavano per avere rendimenti più cospicui dei piatti titoli di stato, ma semmai gli azionisti delle banche sane che contribuiscono a tenere in vita banche moribonde. E’ comprensibile la frustrazione di chi si ritiene beffato per non essere stato correttamente informato dalla sua banca. Per questo, sono possibili class action contro le banche. Il rischio però, dopotutto, è calcolabile: il rischio di chi cerca una remunerazione alta da un investimento. Per quanto appaia cinico vige il principio del caveat emptor, “stia in guardia il compratore”. Senza contare che se le banche fossero davvero fallite e se non esistesse uno schema di risoluzione ante default tutti avrebbero perso tutto.

 

[**Video_box_2**]A giudicare dalle voci di piazza, però, l’Italia è l’unico paese nel quale un privato cittadino che si è assunto un rischio finanziario non deve subìre perdite (al netto del fatto che ciò avvenga per colpa di un brigante direttore di filiale o della propria ignoranza). Se poi tali perdite devono essere compensate dallo stato, e contro princìpi introdotti dallo stato stesso, la toppa rischia di essere peggiore del proverbiale buco. Il viceministro dell’Economia, Enrico Morando, si è detto favorevole alla costituzione di un fondo di solidarietà in minima parte pubblico e in massima parte con risorse bancarie per ristorare alcuni possessori di obbligazioni penalizzati. Con un simile intervento, teoricamente un emendamento alla legge di Stabilità dov’è stato assorbito il decreto “salva banche”, c’è il pericolo di creare un precedente sinistro che non lascerà indifferente la Commissione europea dalla quale, peraltro, proviene il nuovo impulso verso l’esecutivo ad aggregare il pulviscolare o opaco universo delle banche di credito cooperativo. L’intero meccanismo di risoluzione approvato, prodromico all’introduzione del bail-in (il salvataggio a carico dei privati in vigore dal 2016), è concepito in modo che i fallimenti bancari non gravino mai più sui contribuenti, dopotutto sono “poveri risparmiatori” anche loro, come avvenuto prima e dopo la crisi del 2008. Fare un’eccezione per pochi, significa mettere sulla graticola migliaia di altri.

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.