Un gruppo di migranti al confine tra Austria e Ungheria (foto LaPresse)

Misericordia e/o pensioni

Redazione
La logica un po’ meschina di chi arruola i rifugiati per pagarci il conto

Il dibattito sull’immigrazione, in Italia e più in generale in Europa, continua a vivere di immagini emotive e di iperboli fuorvianti. Il fatto che ieri il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, abbia inaugurato l’Assemblea generale chiedendo all’Europa di “fare di più” in termini di accoglienza di 60 milioni di sfollati in tutto il mondo, per esempio, è plausibile che sia presto strumentalizzato per avviare l’ennesimo ciclo di autoflagellazione. Eppure l’accoglienza occidentale andrebbe valutata sulla base di numeri: i paesi Ocse solo nel 2014 hanno accolto 4,3 milioni di immigrati permanenti, mentre dal 2011 al 2014 il tasso di occupazione degli stranieri ha continuato ad aumentare in controtendenza con quello degli autoctoni, e la loro disoccupazione di lungo periodo è scesa. Oppure il tasso di accoglienza si può valutare in maniera “comparata”, e allora scopriremmo che paesi arabi con reddito simile o maggiore del nostro, come i paesi del Golfo, in questi ultimi anni hanno ospitato zero (0) rifugiati siriani. Infine si potrebbero liquidare i paragoni con paesi istituzionalmente deboli che, pur a fronte di sterminati campi profughi, non si preoccupano minimamente degli standard di vita garantiti ai rifugiati (i soliti Libano, Pakistan, eccetera).

 

Ma uno degli argomenti passepartout più in voga da qualche settimana è quello secondo il quale il picco di ingressi di rifugiati costituirebbe una manna dal cielo per il nostro sistema pensionistico. Curioso modo di ragionare, da parte di alcuni: prima si fa (correttamente) appello alla misericordia per le persone che fuggono i conflitti armati, dopo poche ore si trasformano gli stessi rifugiati in contribuenti coatti del nostro welfare. Ipocrisie a parte, si sorvola sul fatto che un’immigrazione che aiuti la sostenibilità delle pensioni richiede anzitutto un inserimento nel mercato del lavoro regolare (precluso ai rifugiati); si dimentica che tutti gli studi più seri non scindono mai la possibile performance lavorativa dal livello d’integrazione dell’immigrato; e che infine nessun contributo esterno può essere risolutivo per il welfare state europeo. Ancora una volta, invece di concentrarsi sul suicidio demografico in corso nel continente, o di porsi il problema della “sostenibilità” concreta di migrazioni non controllate (come invece ieri ha fatto il presidente della Repubblica tedesca, Joachim Gauck, dicendo che “il nostro cuore è grande, ma le nostre possibilità hanno un limite”), nel discorso pubblico si preferisce parlare d’altro.

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