Perché la digital tax non è altro che una bluff tax

Alberto Brambilla
Il senso politico della boutade di Renzi sulla tassa per l'economia digitale e la vera posta in gioco tra chi esulta e chi critica.
Roma. Le autorità governative italiane hanno fornito, attraverso interviste e leak pubblicati dai media, un aggiornamento sugli sviluppi previsti nella modalità di tassazione delle grandi multinazionali di Internet, la cosiddetta "Digital tax".

 

Il Corriere della Sera ha pubblicato la bozza di un disegno di legge a firma dei deputati di Scelta civica Stefano Quintarelli e Giulio Cesare Sottanelli, e concordato con il sottosegretario all'Economia, Enrico Zanetti. Il rapporto suggerisce che l'Italia dovrebbe continuare a proporre nelle sedi internazionali di tassare il valore che le multinazionali estraggono da alcuni beni intangibili legati all'economia digitale. Il rapporto discute il fatto che le multinazionali possono eludere la tassazione da parte degli stati visto che i loro modelli di business sono diversi da quelli delle aziende tradizionali. Il rapporto suggerisce che queste compagnie dovrebbero essere sottoposte a un regime fiscale speciale, così come viene appunto suggerito anche dall'Ocse ai suoi 32 paesi membri.

 

[**Video_box_2**]Il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, aveva rivelato l'intenzione di tassare le multinazionali dell'economia digitale durante un'intervista alla trasmissione Otto e Mezzo di La7. Il giorno successivo il Corriere della Sera ha pubblicato la bozza del testo sopracitata. Renzi è stato subito criticato da una parte della stampa perché nel dicembre 2013 aveva deriso la cosiddetta Web Tax – una misura simile in principio ma per nulla comparabile a quella avanzata ora dal governo – dicendo dall'assemblea nazionale del Partito democratico "siamo passati dalla nuvola digitale alla nuvola di Fantozzi, la Web Tax va cancellata". Renzi ha fatto la figura del "volta gabbana", a torto. In realtà quando il governo si era appena insediato aveva effettivamente disinnescato la possibilità di una tassazione sulle vendite prodotte in Italia dalle società digitali con sede fiscale all'estero attraverso l'imposizione del regime Iva, ovvero la Web Tax proposta dal deputato Francesco Boccia (Pd) che comunque avrebbe, secondo molti osservatori, sollevato obiezioni severe da parte della Commissione europea perché avrebbe rappresentato una violazione della libertà di circolazione e di prestazione dei servizi. Ma l'incomprensione generale della differenza tra quella proposta e quella odierna ha generato confusione e relative critiche dei media verso il governo, in ogni caso caduto in un errore di comunicazione. Dietro all'annuncio di Renzi s'intravede tuttavia una logica politica interessante da sottolineare.

 

Avanzando l'idea di una tassa sull'economia digitale, da segretario del partito di sinistra più rappresentato a Bruxelles, Renzi vorrebbe dimostrare di essere un politico d'avanguardia in Europa in fatto di modifica delle regole fiscali internazionali che interessano società come Google, Amazon, Facebook. "Stiamo aspettando da due anni che ci sia una legge europea", ha detto, come a sottolineare che se l'Europa è immobile allora l'Italia si attiva per scuoterla dal torpore. Il nuovo regime d'imposizone partirà dal 2017, dice Renzi che ritiene di poterne ricavare 3 miliardi di gettito annuo per l'erario. La mossa mediatica del premier, però, non è né originale né rivelatrice di un'iniziativa squisitamente italiana.

 

L'agenzia governativa francese, France Strategie, l'11 agosto scorso aveva infatti cominciato a fare circolare un rapporto sulla tassazione della digital economy con suggerimenti simili a quello italiano; ma ha fatto meno rumore. E' poi notorio che l'Ocse, che suggerisce le politiche fiscali transnazionali, ha quasi concluso il lavoro in merito e a inizio ottobre dovrebbero essere pubblicate le linee guida definitive mentre poche settimane dopo, a novembre, sarà il G20 a doverle discutere affinché ogni paese partecipante inizi ad applicare le nuove misure nel 2016. Messa così, insomma, quella del governo è una mossa dettata dal marketing politico a uso interno. E' stata offerta al pubblico come misura di "giustizia fiscale" riuscendo invero a esercitare un certo appeal verso la sinistra del Partito democratico particolarmente accanita nel volere estrarre valore dalle multinazionali americane del web (che perlatro Renzi da sempre considera dei "miti"; il suo consigliere più fidato, Marco Carrai, ambisce a ricevere udienza dal capo economista di Google Hal Varian nella sua prossima visita nella Silicon Valley prevista il 21 settembre).

 

Di cosa si parla, dunque? La "diverted profit tax" in chiave italiana, impianto della cosiddetta Digital tax, vuole individuare una “stabile organizzazione virtuale” di una multinazionale, magari con sede fiscale negli Stati Uniti o in Irlanda, che ha un regime fiscale più lasco in Europa, che viene identificata e valutata attraverso il monitoraggio del circuito dei pagamenti telematici e quando viene superata la soglia di cinque milioni di euro in un semestre di attività scatta una ritenuta alla fonte del 25 per cento sui ricavi ricoscendo un credito d'imposta all'azienda per evitare di incorrere in doppie imposizioni.

 

E' favorevole Massimo Mucchetti, presidente della Commissione industria del Senato, tendenza sinistra Pd, che sul suo blog scrive: "Finalmente, dopo due anni, il governo italiano si prepara a far pagare qualche imposta alle multinazionali del web che, finora, le hanno elegantemente aggirate registrando nei paradisi fiscali, molto spesso in Irlanda, i ricavi effettuati nei grandi Paesi europei. […] Palazzo Chigi giustifica la benevolenza mostrata finora verso gli elusori di lusso (Google, Apple, Amazon, Facebook, ma anche Ryanair e così via) con l’attesa di una norma europea. E ancora intende pazientare per i primi sei mesi del 2016.  Altri, come il conservatore Cameron, si sono già mossi. In effetti, l’Unione europea ha affrontato gli abusi di posizione dominante dei Google & C. in chiave Antitrust. Assai meno efficace è stata finora l’elaborazione comunitaria sul piano fiscale, ancorché l’elusione consenta all’elusore di offrire servizi a prezzi inferiori rispetto a quelli praticabili da parte di chi le imposte le paga per intero.  L’emendamento alla legge di stabilità, che avevo presentato un anno fa, per introdurre una norma all’inglese non ebbe il sostegno del governo, preoccupato di trovarsi spiazzato rispetto alla retorica del Nuovo Che Avanza. Poi il sottosegretario Zanetti l’ha riproposto in un suo ddl. Adesso, con Google che è ormai da due anni il secondo operatore pubblicitario italiano dopo Mediaset, arriva la svolta di Renzi. Vedremo il merito. Ma intanto gli va tributato il giusto omaggio: meglio tardi che mai".

 

E' contrario Carlo Alberto Carnevale Maffé, economista dell'Università Bocconi, intervistato dalla Stampa: "La verità è che cosa sia la digital tax non l’ha capito nessuno. L’affermazione di Renzi è sgangherata in termini economici. Non dico che si è rimangiato la parola sulla Web Tax di Boccia, che era aberrante e non aveva senso. Ma su internet l’ignoranza dei politici si conferma davvero grande. Quella di Stefano Quintarelli non è né digital né tax. E' una pistola puntata sull’azienda: o fai la sede in Italia o io ti tasso, forza ad aprire una stabile organizzazione, è un prelievo forzoso, e un ostacolo alla libera scelta di stabilimento, che è un pilastro della Unione europea. E' comprensibile e razionale, ma io dissento, va contro lo stile europeo".

Al Foglio aggiunge che per uscire dalla logica Web Tax (o similia) sì, Web Tax no "non devi tassare il digitale ma l'analogico. Se tassi l'analogico di conseguenza incentivi il digitale e introduci due effetti importanti: aumenti la produttività e incentivi gli investimenti nel digitale che non abbiamo in assoluto e in particolare in un settore che sta spargendo benessere per tutti; questa è equità. Userei la leva fiscale ma all'esatto contrario di quanto proposto in quanto si vuole disincentivare fiscalmente l'economia legata a internet in vario modo, per sussidiare l'analogico. E poi ci stupiamo se l'e-commerce in Italia è indietro, se continuiamo così resterà tale per un pezzo. Per i benefici che producono gli attori economici del digitale per l'umanità intera bisognerebbe piuttosto lambiccarsi il cervello per detassarlo. Il dibattito dovrebbe dunque essere dirottato su come alziamo le tasse sull'analogico, ovvero su tutti quei processi labour intensive che hanno costi inefficienti. Io paragono l'analogico all'energia fossile e il digitale a quella rinnovabile. E allora perché se sussidiamo l'energia verde, con risultati discutibili, penalizziamo senza posa il digitale?".

 

E' contrario Massimiliano Trovato, analista dell'Istituto Bruno Leoni, secondo il quale l'approccio britannico è stato più onesto. "Ha dei punti di contatto con la misura che ha preso George Osborne in Gran Bretagna ma è diversa. La proposta Zanetti prende di mira i ricavi mentre Londra tassa i profitti. Un'imposizione sui ricavi non si è mai sentita in nessun paese, vuol dire che tutte le spese di produzione di quel reddito non possono essere dedotte. Mettiamo (molto generosamente) che per un'impresa digitale "x" il 50 per cento dei ricavi siano profitto, ma un'aliquota del 25 per cento sui ricavi equivarrebbe al 50 per cento di tassazione sui profitti. Questo allora è molto più simile a un ricatto, e penso sia parola appropriata, perché equivale a dire a queste imprese o fate la "stabile organizzazione" in Italia, che adesso non avete, oppure noi i soldi li prendiamo comunque e in ogni caso. Renzi ha detto che è una misura di giustizia fiscale, questo però somiglia a un abuso fiscale. Mi rendo conto che la direzione di tutti i paesi sotto la guida dell'Ocse sia fare pagare le tasse nei luoghi dove vengono generate – cosa su cui ho comunque grosse perplessità – se questa è la direzione acclarata e concordata l'Italia la sta seguendo in maniera vampiresca. La differenza rispetto alla Web Tax è che in quel caso l'illegittimità era talmente palese che il giorno dopo la Commissione avrebbe piazzato una procedura d'infrazione, quella di adesso è comunque illegittima, ma più sfumata. Sarebbe semmai una delle aziende colpite a dovere risolvere questa misura in un lungo contenzioso".

 

E' contrario, e molto perplesso, Dario Stevanato, avvocato tributarista su www.giustiziafiscale.it: "Se dunque i 'giganti dell'economia digitale' non possiedono, già oggi, una stabile organizzazione in Italia (se la possedessero già dovrebbero pagare in Italia le imposte relative agli affari conclusi mediante tale stabile organizzazione), non vedo come si possa pretendere di applicare loro una ritenuta alla fonte sui pagamenti effettuati da banche e intermediari. In mancanza di un radicamento sul territorio italiano, e atteso che i contratti di vendita vengono stipulati all'estero, le società con sede all'estero non producono redditi nello stato della fonte (l'Italia), come del resto accade per ogni impresa che vende i propri prodotti all'estero senza ivi avere "basi fisse". Certo l'Italia potrebbe modificare le proprie norme interne allargando il concetto di stabile organizzazione, ma la modifica resterebbe senza effetti vista la prevalenza dei trattati sulle norme "interne" (principio di specialità). L'idea poi di collegare la nascita di una "stabile" virtuale al superamento di un certo volume di transazioni mi sembra ancor meno gestibile, denotando peraltro la debolezza intrinseca del nuovo concetto di stabile organizzazione, che non può essere fatto dipendere dal numero di transazioni o dal fatturato, bensì dal modus operandi e dal radicamento sul territorio. Come pure incomprensibile è la proposta di riconoscere un credito di imposta al fine di evitare doppie imposizioni: il credito di imposta è infatti riconosciuto dallo stato della residenza, e non certo da quello della fonte. a proposta, nei termini sopra descritti, di intervenire unilateralmente con l'applicazione di una ritenuta sui proventi di società estera non aventi una stabile organizzazione in Italia, mi sembra in definitiva velleitaria e inattuabile".
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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.