Francesco, il profitto e il sacrificio dei monasteri per la Rivoluzione industriale

Marco Valerio Lo Prete
La scorsa settimana, ragionando delle recenti scelte cinesi nel campo della politica monetaria, abbiamo citato il pensiero di alcuni economisti che ridimensionano il ruolo delle istituzioni formali quando si tratta di spiegare la nascita del processo di sviluppo di un paese. Oggi torniamo su questo tema, prendendo come spunto uno degli interventi del Papa della scorsa settimana.

    Oggi su Radio Radicale è andata in onda, come ogni lunedì, la mia rubrica "Oikonomia". A questo link trovate l'audio, qui di seguito il testo:

     

    La scorsa settimana, ragionando delle recenti scelte cinesi nel campo della politica monetaria, ho citato il pensiero di alcuni economisti che ridimensionano il ruolo delle istituzioni formali quando si tratta di spiegare la nascita del processo di sviluppo di un paese. Oggi torno su questo tema, prendendo come spunto uno degli interventi del Papa della scorsa settimana; Francesco ha detto che “quando il lavoro si distacca dall'alleanza di Dio con l’uomo e la donna, quando si separa dalle loro qualità spirituali, quando è in ostaggio della logica del solo profitto e disprezza gli affetti della vita, l’avvilimento dell'anima contamina tutto: anche l'aria, l'acqua, l'erba, il cibo... La vita civile si corrompe e l'habitat si guasta. E le conseguenze colpiscono soprattutto i più poveri e le famiglie più povere”. Il Papa non è nuovo a queste intemerate, anche se contrapporre mercato, profitto e povertà potrebbe essere storicamente poco preciso. Per spiegare perché si può tornare su alcuni recentissimi studi sulla nascita della rivoluzione industriale in Gran Bretagna, forse il principale antidoto alla povertà realizzato dall’uomo moderno.

     

    Lo studio cui mi riferisco è stato appena pubblicato da Leander Heldring (Università di Oxford), James A. Robinson (Università di Chicago) e Sebastian Vollmer (Università di Gottinga), e contribuisce all’annoso tentativo di spiegare, utilizzando in maniera sistematica nuovi dati statistici, perché la rivoluzione industriale sia avvenuta quando è avvenuta, cioè nel diciottesimo secolo, e dove è avvenuta, cioè in Gran Bretagna. Piccolo spoiler: c’entra la religione, o meglio il ridimensionamento del ruolo mondano della stessa.

     

    Alcuni storici della Rivoluzione industriale come noto si sono concentrati sulla generosità di Madre natura, tra carbone e acque navigabili presenti in Gran Bretagna. In molti invece hanno ragionato sulla qualità delle istituzioni inglesi: sul fatto che dopo shock come la Grande peste o l’espansione del commercio atlantico ci siano stati cambiamenti sociali con conseguenti conflitti politici nel XVII secolo, in particolare la Guerra civile attorno al 1640 e poi la Glorious revolution del 1688, con le radicali modifiche istituzionali che ne sono dipese. Uno degli shock sottovalutati in epoca contemporanea, secondo questi economisti, è quello studiato nel 1941 da Richard Tawney; secondo lo storico inglese dell’economia scomparso nel 1962, la domanda di cambiamento istituzionale e la Guerra civile inglese del XVII secolo furono il risultato di un grande mutamento nella struttura sociale che egli descrisse come “the rise of the gentry”, cioè la nascita della piccola nobiltà, o meglio una nuova classe di imprenditori agricoli con un’attenzione particolare al commercio e all’imprenditoria. E tra le ragioni di questo mutamento sociale ci sarebbe la Dissoluzione dei monasteri inglesi decisa tra il 1532 e il 1540 dal re Enrico VIII; il sovrano inglese infatti ruppe con il Papa, fondò la Chiesa d’Inghilterra, e spogliò la Chiesa di Roma dei suoi possedimenti, pari allora al 25-30% del territorio inglese. A quel tempo un altro 5% dei territori era di proprietà reale. Due secoli dopo, nel 1688, la somma di territori ecclesiastici e reali era il 5-10% del totale; e anche se la stessa Corona aveva proceduto con le dismissioni, la caduta di questa percentuale fu soprattutto conseguenza della Dissoluzione imposta da Enrico VIII. Nello stesso periodo le terre di proprietari medio-piccoli salì dal 25 al 45-50% del totale. E secondo Tawney, questi piccoli proprietari terrieri che si avvantaggiarono di tale passaggio di proprietà divennero successivamente tra i primi fautori di riforme politiche in senso liberale e quindi facilitatori del processo di Rivoluzione industriale. Se alcuni storici non credono a questi nessi causali, ora i tre economisti di cui sopra hanno tentato di verificarli.

     

    Per misurare l’impatto della cosiddetta Dissoluzione, gli economisti hanno preso i dati del “Valor Ecclesiasticus”, un censimento dei beni e dei redditi di monasteri e strutture religiose commissionato da Enrico VIII: tra Inghilterra e Galles si trattava di 825 monasteri, abitati da circa 10.000 persone, e con possedimenti pari a circa un quarto o un terzo di tutti i terreni del paese. Gli stessi economisti dimostrano che maggiore era il reddito monastico dichiarato e registrato nel Valor, maggiore era il tasso di industrializzazione registrato tre secoli dopo, nel 1838, in termini di presenza e numero di stabilimenti tessili, oltre che di dipendenti degli stessi stabilimenti. Inoltre livelli più alti di reddito nelle istituzioni religiose nel 1535 sono associati con una porzione più piccola di forza lavoro impiegata nell’agricoltura tre secoli dopo, secondo il Censimento del 1831, e con una porzione più ampia di occupati nella manifattura e nel commercio. Gli autori tentano pure di dimostrare che queste “correlazioni” statistiche possono essere legate da un nesso causa-effetto.

     

    Tre sono i canali di trasmissione tra Dissoluzione e industrializzazione identificati dagli economisti. Primo, una correlazione positiva tra reddito monastico e numero di piccoli nobili, cioè di appartenenti alla cosiddetta gentry, già nel 1700. In secondo luogo, lì dove i redditi generati dai monasteri erano più elevati, tra il 1750 e il 1840 sono cresciute maggiormente le enclosures, cioè le recinzioni di terre decretate dal Parlamento; questo pure è coerente con la tesi secondo cui la gentry sarebbe stata molto attiva in Parlamento e abbia promosso in generale una legislazione adatta a tutelare i propri interessi economici. Infine gli autori notano una correlazione significativa e positiva tra reddito creato dai monasteri espropriati e tivenduti da una parte, e numero di brevetti per innovazioni agricole registrati tra il 1700 e il 1850; il che suggerisce che la Dissoluzione decretata da Enrico VIII abbia portato a una maggiore innovazione, perlomeno nel settore primario. E questo dunque per quanto riguarda i canali attraverso cui la Dissoluzione avrebbe impattato sull’industrializzazione.

     

    Lo storico Richard Tawney – concludono oggi gli economisti Heldring, Robinson e Sebastian Vollmer – aveva ragione quando associava la Dissoluzione dei monasteri all’incredibile diffusione e rafforzamento della piccola nobiltà produttiva. Inoltre è “probabile”, scrivono, che questo shock impresso da Enrico VIII abbia avuto un impatto anche sull’industrializzazione del Regno Unito, primo paese del pianeta ad avviare quel processo. Perciò questa ipotesi torna utile, secondo altre correlazioni statistiche che per ragioni di tempo non descrivo, per spiegare lo sviluppo industriale maggiore di alcune aree geografiche del paese. Monasteri espropriati e industrializzazione: ecco un altro esempio di letteratura economica sulla crescita, insomma, che integra i classici approcci del filone istituzionalista.