E' la bolla cinese la vera tragedia greca

Redazione
Speculazione e azzardo di massa. Crolli e rimbalzi per decreto. Cronaca del ’29 di Pechino, dove gli investitori sono contadini e principianti.

In questi giorni la Borsa in Cina non conosce la normalità: o crolla o fa record al rialzo. Venerdì Shanghai è salita del 4,5%, dopo il balzo del 5,7 di giovedì. Le due giornate sommate segnano la crescita consecutiva più forte dal 2008. E seguono il mercoledì della grande paura, quando aveva perso il 5,9%, ultimo atto di una correzione di più del 30% dal 12 giugno. L’agenzia «Xinhua», che sta facendo più il tifo che informazione, ha lanciato un tweet sportivo con un saltatore dell’asta sotto il titolo «Abbagliante ripartenza». Giovedì aveva utilizzato la foto di un missile.

Guido Santevecchi, Corriere della Sera 11/7

 

Il listino cinese dal giugno 2014 al giugno 2015 ha guadagnato il 151%, dei quali 110 solo negli ultimi sette mesi. Portando i prezzi delle azioni a un valore 59 volte superiore agli utili delle aziende. Cioè nel campo della follia. E infatti ecco il crollo del 30% in meno di un mese: bruciati 3.400 miliardi di dollari di capitalizzazione, cioè 15 volte il Pil della Grecia, oltre sette volte il debito di Atene. Ora in Asia dicono: «Dimenticate la tragedia greca, rispetto alla Cina rischia di essere solo una commedia».

Guido Santevecchi, Corriere della Sera 9/7

 

La Cina ha costruito una delle più grandi bolle speculative che si ricordino. Le autorità avevano un triplice scopo. Il primo era di favorire la crescita del mercato azionario ancora poco sviluppato rispetto alla forza economica della Cina. Il secondo era quella di deviare gli investimenti dal mercato immobiliare a rischio bolla. Il terzo quello di arginare l’indebitamento delle aziende (passato dal 98% del Pil del 2007 al 155% del 2014) spingendo le imprese a reperire più fondi in Borsa e meno in banca.

Andrea Pira, MilanoFinanza 11/7

 

Così hanno varato una serie di riforme, come l’apertura dello sportello unico tra le borse di Shanghai e Hong Kong lo scorso novembre, che hanno aperto sempre più il mercato azionario agli investitori internazionali e ai piccoli risparmiatori locali. Santevecchi: «Ecco cosa succedeva: i cinesi delistavano le società quotate negli Usa per riquotarle in Cina. Una sorta di arbitraggio di multipli perché te le ricompravi a 100 ritirandole dal Nasdaq e quotandole a 1.000 a Shenzhen o a 700 a Hong Kong».

Mariangela Pira, MilanoFinanza 11/7

 

E hanno prodotto anche un effetto collaterale forse imprevisto: i risparmiatori cinesi ci hanno preso gusto. Così sono arrivati a indebitarsi per l’equivalente di 334 miliardi di euro per comprare azioni. Il 3,6% della capitalizzazione del mercato, un ammontare che ha superato persino quello presente sui mercati statunitensi, pari al 2,3%.

Luca Beggiao e Giuseppe Di Vittorio, MilanoFinanza 11/7

 

Beggiao e Di Vittorio: «Se in rapporto alla capitalizzazione di mercato la leva finanziaria appare molto consistente, i broker cinesi offrono però un margine pari al 25% e dunque non così eccessivo; la leva è pari a quattro volte il capitale investito. Si tratta di numeri non vertiginosi, se si pensa che in Italia alcuni broker offrono leve pari anche a venti».

Luca Beggiao e Giuseppe Di Vittorio, MilanoFinanza 11/7

 

Sarebbe quindi un errore attribuire tutta la responsabilità della caduta esclusivamente a un uso troppo disinvolto della leva. Semmai il problema riguarda chi l’ha utilizzata, per via dello scarso grado di preparazione e competenza finanziarie. I sintomi sono infatti tipici di un mercato in balia di un’eccessiva euforia, con tassi di partecipazione in costante crescita e accompagnati da un progressivo abbassamento delle competenze degli investitori.

Luca Beggiao e Giuseppe Di Vittorio, MilanoFinanza 11/7

 

Nel Paese che fu di Mao e che ancora si regge – eccome – sul Partito unico, comunista, i trader, ovvero gli operatori di Borsa, hanno superato gli iscritti al Partito comunista. Novanta milioni contro poco meno di ottantotto. Le agenzie di brokeraggio, dove i cinesi vanno a seguire su grandi schermi l’andamento dei loro titoli, sono più numerose delle sale bingo (e gli somigliano in tutto).

Ilaria Maria Sala, La Stampa 2/7

 

«Ho iniziato a comprare azioni in Borsa due settimane fa, su consiglio del mio parrucchiere» (Sophie Wang, 32enne insegnante di Nanjing).

Morya Longo, Il Sole 24 Ore 8/7

 

Il fenomeno dei piccoli giocatori di Borsa ha contagiato anche le famiglie che per secoli hanno vissuto di agricoltura, rimodulando i tempi del lavoro sull’orario di apertura del mercato azionario. Ci si sveglia presto, si va nei campi e poi si torna a casa alle 9,30, quando apre Shanghai. Tutti a seguire le quotazioni fino alle 11,30, quando la Borsa fa una pausa. E poi di nuovo dalle 13 alla chiusura delle contrattazioni alle 15.

Guido Santevecchi, Corriere della Sera 3/7

 

Per un anno le cose sono andate benissimo. È stata creata ricchezza capitalista (e virtuale) per 6,5 trilioni di dollari in un anno. Con i giornali statali che continuavano a incitare la gente, assicurando che il Toro rosso non si sarebbe fermato. Il «parco buoi», come si chiama in Occidente la massa dei piccoli investitori, ha seguito il drappo della propaganda. Santevecchi: «Poi invece, da metà giugno, una serie di giornate terribili, da -7 e -6, hanno bruciato come stoppia tremila miliardi, e il pil cinese supera di poco i 10mila miliardi. È stato perso più del consumo annuale delle famiglie cinesi».

Guido Santevecchi, Corriere della Sera 3/7

 

In queste ore per scacciare il panico sullo stato delle borse cinesi ci si appella a una risata. «Ah ah, credi alla stampa occidentale?». Il commento apparso su Facebook è la risposta di uno dei milioni dei piccoli investitori cinesi alla domanda se tema o no la bufera. Tutto un mondo in pochi caratteri: i rapporti tra Pechino e l’Occidente; la paura di un possibile contagio; la percezione che qualcosa nei mercati si stia per grippare, e tra le righe, la fiducia che oltre Muraglia si continua ad avere sulla capacità del governo di tutelare gli interessi dei cittadini e la consapevolezza che, comunque, alla fine la dirigenza interverrà per evitare il peggio.

Andrea Pira, MilanoFinanza 11/7

 

E la cronaca di questi giorni sembra confermare le aspettative. Il crollo di mercoledì ha spinto la dirigenza cinese a intervenire in modo deciso, per non dire autoritario, riportando gli indici, come visto, in territorio positivo. Il provvedimento considerato forse come il più incisivo è stato il richiamo della China Securities Regulatory Commission (Csrc), la Consob locale, affinché chi detiene quote superiori al 5% in una società mantenga inalterate le posizioni per i prossimi sei mesi.

Morya Longo, Il Sole 24 Ore 9/7

 

Allo stesso tempo, mentre oltre metà dei titoli dei due listini sono stati sospesi dalle contrattazioni, lo Stato ha indirettamente cominciato a iniettare liquidità nel mercato, non soltanto esortando le grandi aziende pubbliche a comprare, ma attraverso finanziamenti della banca centrale alla China Securities Financial Corporation, un veicolo statale che presta agli intermediari finanziari.

Morya Longo, Il Sole 24 Ore 9/7

 

Una specie di Quantitative Easing super-focalizzato ad aiutare i soggetti che sul mercato hanno più acuto bisogno di liquidità per non andare in bancarotta. E infine, come riportato dal Wall Street Journal, ad accrescere l’efficacia delle misure messe in campo, sui social media sono iniziate a circolare notizie sul fatto che la polizia cinese aveva aperto la caccia agli short sellers «colpevoli di operazioni malevole».

Francesco Daveri e Francesco Giavazzi, Corriere della Sera 11/7

 

Daveri e Giavazzi: «In Cina c’è un signore, sconosciuto alla più parte degli occidentali, che in questi giorni sta salvando il suo posto di lavoro e – forse – anche il suo paese. Il suo nome è Xiao Gang ed è il capo della Consob cinese. Da noi il presidente dell’autorità che regola i mercati è il garante della trasparenza delle informazioni a delle transazioni in Borsa. Il suo compito finisce lì. In Cina il compito del regolatore è più difficile perché da lui il governo si aspetta che garantisca il rapido sviluppo del mercato dei capitali: cioè vuole risultati, non il rispetto delle regole».

Francesco Daveri e Francesco Giavazzi, Corriere della Sera 11/7

 

Alberto Forchielli, presidente di Osservatorio Asia: «Così il governo cinese si è giocato la credibilità perché di fatto ha intimato con la forza di non vendere. Mentre la Fed e la Bce per aiutare i mercati comprano bond a medio e lungo termine, la banca centrale cinese ha comprato azioni. Ma un mercato così rimane a livelli non sostenibili e giustificabili sulla base di nessun calcolo: il governo non ha lasciato al mercato la possibilità di aggiustare i corsi. E gli investitori internazionali ora crederanno che è il governo a decidere quando si sale e quando si scende».

Andrea Pira, MilanoFinanza 11/7

 

La domanda, a questo punto, è: un crollo della Borsa cinese potrà contagiare il resto del mondo? Longo: «Dato che stiamo parlando della seconda economia del globo, del primo esportatore e del maggiore consumatore di materie prime, la risposta non può che essere affermativa». L’interscambio commerciale mondiale con la Cina è infatti pari a 4.300 miliardi di dollari. Solo l’Italia esporta nel Paese beni per quasi 14 miliardi di dollari. Ma ci sono economie molto più dipendenti da Pechino: per esempio l’Australia (che ha in Cina il 30% del proprio export), il Brasile (20%), il Perù (20%) o l’Angola (oltre il 40%). Ovvio che se l’economia cinese rallentasse più di quanto non stia già facendo ora, questi Paesi soffrirebbero molto. Con ulteriori effetti a catena.

Morya Longo, Il Sole 24 Ore 9/7

 

Il punto è capire se un crollo della Borsa possa seriamente inceppare la locomotiva cinese (che già rallenta) e contagiare il resto del mondo, come più volte in passato è accaduto con Wall Street. La Repubblica Popolare ha una struttura ben diversa da quella americana. Il peso della Borsa sul pil non è così elevato come negli Usa, quindi l’effetto povertà-ricchezza è più attenuato. Non c’è neanche l’effetto mutuo che in America pesa molto. I consumi sono il 35% del pil in Cina, mentre negli Usa sono il 70%. Per di più Pechino ha 4mila miliardi di dollari di riserve valutarie: un arsenale immenso per arginare – si spera – il contagio dalla Borsa all’economia reale. Longo: «Eppure, nonostante questo, se il crollo di Shanghai continuasse sarebbe impossibile sperare che l’economia reale ne possa uscire indenne. E sarebbe impossibile pretendere che non ci sia contagio nel mondo. La speranza è che la politica, il «fattore P», usi bene le sue armi e gestisca il problema al meglio. Quantomeno per limitare i danni».

Morya Longo, Il Sole 24 Ore 9/7

 

a cura di Francesco Billi

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