Il presidente del Fmi, Christine Lagarde, e il ministro delle Finanze della Grecia, Yanis Varoufakis

Chi ha paura del debito pubblico

Marco Valerio Lo Prete
Intervistato dal Corriere della Sera, il premier greco Alexis Tsipras ieri non ha trovato di meglio da fare che rispondere a una domanda sul debito pubblico ellenico frapponendo tra sé e l’intervistatore il debito pubblico altrui.

Roma. “Se la leadership politica europea non può gestire un problema come quello della Grecia che rappresenta il 2 per cento della sua economia, quale sarà la reazione del mercati per paesi che affrontano problemi molto più grandi, come la Spagna o l’Italia che ha un debito pubblico di 2 mila miliardi?”. Intervistato dal Corriere della Sera, il premier greco Alexis Tsipras ieri non ha trovato di meglio da fare che rispondere a una domanda sul debito pubblico ellenico frapponendo tra sé e l’intervistatore il debito pubblico altrui. In quelle parole non è mancato chi vi abbia letto un velato ricatto, in vista dell’incontro di oggi a Bruxelles tra lo stesso Tsipras, Merkel, Hollande e il presidente della Commissione Ue Juncker. Come a dire: se cade Atene, comincia l’effetto domino e viene giù tutta l’Eurozona, a partire dall’Italia con il suo debito pubblico pari al 135 per cento del pil. Il ministro dell’Economia italiano, Pier Carlo Padoan, si è detto “dispiaciuto” e “in totale disaccordo” con le tesi del premier greco.

 

E’ dal 2009 che gli economisti, tra raccolte di dati, paper accademici e polemiche mediatiche, non hanno fatto altro che affinare le spiegazioni della crisi che ha investito l’Eurozona. Più passa il tempo, più aumenta il numero di ipotesi esplicative. Eppure il debito pubblico, nel nostro continente, resta sempre lì, a pesare sui conti pubblici, certo, ma anche a dividere le coscienze di economisti, politici e cittadini. Semplificando un po’, si può dire che oggi sul fronte anglosassone prevalgano toni ben poco allarmistici sul debito pubblico e in generale sulla necessità di un risanamento delle finanze pubbliche costi quel che costi. Al punto che il Financial Times, quotidiano della City londinese ma di gusti tutt’altro che conservatori, due giorni fa in un editoriale si è spinto fino a rivalutare un motto dell’ex vicepresidente repubblicano Dick Cheney: “Reagan dimostrò che i deficit non sono un problema”. Erano tempi in cui del debito pubblico non ci si curava affatto, sbagliando per eccesso dice il Ft. Che poi però consiglia di rivalutare almeno un po’ quel distacco, piuttosto che aderire alle ossessioni austere di Berlino. E se oggi la questione è “a quale velocità si debba ridurre” questo fardello lasciato in dote dalle generazioni precedenti, il quotidiano suggerisce di abbeverarsi a un recente studio del Fondo monetario internazionale (Fmi), così intitolato: “Quando andrebbe ridotto il debito pubblico?”. Dove la novità è tutta nel punto interrogativo. Il Fmi scrive che “nei paesi che hanno un ampio margine di manovra fiscale, i governi non dovrebbero perseguire politiche per ripagare il debito, ma invece lasciare che il rapporto debito/pil scenda per effetto della crescita e di entrate ‘opportunistiche’, per il resto invece convivendo con il debito”. Il Financial Times brandisce tali conclusioni per invitare il governo conservatore di Cameron a placare il ritmo dei tagli alla spesa. Anche se nello stesso paper si legge che la ricetta non vale per paesi come Italia e Grecia, troppo indebitati e lenti nella crescita per non pensare a come smaltire i deficit accumulati nel tempo. Fatto sta che dal Fmi, tra punti interrogativi e sfumature, arriva un ennesimo invito al pragmatismo nella gestione delle finanze pubbliche.

 

[**Video_box_2**]Un miraggio, per il dibattito europeo. Almeno a giudicare da un altro recente studio dell’economista tedesco Adrian Chadi e del collega svizzero Matthias Krapf. Nel quale, studi demoscopici alla mano, si dimostra come, in questi anni di crisi, gli europei di fede protestante siano diventati molto più scettici sulla tenuta della moneta unica, fino a vedere diminuire la “soddisfazione complessiva per la propria vita”. Dalla periferia dell’Eurozona, prevalentemente cattolica o ortodossa, qualcuno potrebbe ribattere con i dati sul calo del pil pro capite, altro che “soddisfazione”. Ma le interviste compiute tra i protestanti europei, inclusa la metà dei tedeschi, confermano la forza di antichi pregiudizi: se Lutero si batté nel XVI secolo contro la vendita delle indulgenze, oggi i protestanti restano convinti che “non punire i deficit fiscali potrà rafforzare l’azzardo morale” nel resto dell’Eurozona. Con buona pace del pragmatismo predicato dal Fmi.