Buffett al giro di boa

Gabriele Moccia
Warren Buffett, a Wall Street e fuori, è un nome che è già leggenda. Un pò filantropo, un pò studioso dell'analisi di Borsa, un pò filosofo morale del trading, ma soprattutto uno tra i più grandi investitori del mondo.

Warren Buffett, a Wall Street e fuori, è un nome che è già leggenda. Un pò filantropo, un pò studioso dell'analisi di Borsa, un pò filosofo morale del trading, ma soprattutto uno tra i più grandi investitori del mondo. La società che controlla dal 1965, la Berkshire Hathaway, oggi, 2 maggio, compie cinquant'anni di attività.

 

Sul perché un gruppo tessile del New England sia diventato – da quando il guru di Omaha ne ha preso le redini – progressivamente una delle holding finanziarie più importanti sul mercato sono stati versati fiumi d'inchiostro. Lo stesso Buffett, qualche settimana fa, ha preso carta e penna e, nell'annuale lettera agli azionisti, ha tracciato un lungo bilancio di questo periodo, insieme al vicepresidente della conglomerata, il suo fidato amico Charlie Munger, suo alter ego. "Charlie and I decided", la frase scolpita nel granito, che ha sempre indicato le scelte strategiche della Berkshire nei momenti più delicati, che si trattasse di un takeover o di un semplice rastrellamento di quote.  

 

E di mari agitati ne hanno navigati non pochi. Come quando, nel 1992, la Berkshire si lanciò nell'acquisizione di una bella fetta della General Dynamics (il 15 per cento), nel pieno della crisi dell'industria militare americana a causa del crollo del muro di Berlino, posizione che Buffett ha tenuto in portafoglio sino al 2013, attirandosi gli strali di analisti e osservatori. Altrettanto criticata la scelta di diventare l'azionista principale della Wells Fargo, sempre nei primi anni Novanta, spendendo 289 milioni di dollari. Banca strangolata dalla carenza di riserve, dalla recessione californiana e dal crollo della Federal Savings and Loan Insurance Corporation. Lo stesso Buffett ammise poi a Forbes: "Avevo sottovalutato sia la gravità della recessione in California, sia i problemi immobiliari della banca".

 

I marosi più grossi però li hanno dovuti cavalcare durante la crisi dei subprime nel 2007-2008. Lì la Berkshire si salvo per il rotto della cuffia, piazzando in extremis quasi 8 miliardi di credit default swap (i municipal bond) alla Lehman ormai prossima al crac. Lo stesso Buffett che, un pò vate, un pò gufo, negli stessi giorni lanciava i suoi moniti a destra e a manca, pronunciando quella celebre frase: "Attenti,  i derivati sono armi finanziarie di distruzione di massa", dando il via all'inverno nucleare della finanza, come sostenne l'Economist. Quasi a sentirsi in colpa e spinto parecchio dal suo vecchio amico Henry Paulson – nel pallone alla guida del Treasury – il genietto di Omaha si buttò allora mani e piedi a salvare la Goldman Sachs con un accordo su warrant garantiti da 5 miliardi di dollari. Alla fine ci ha pure guadagnato, nel ringraziare per il salvagente lanciato, la Goldman, infatti, nel 2013 gliene ha restituiti per intanto 2.  

 

Ora che la buriana è passata - almeno dall'altra parte dell'oceano - gli affari vanno a gonfie vele. Nel 2014, l'utile netto della Berkshire è salito a 18 miliardi di dollari e, stando ai calcoli di Buffett e Minger, la holding, dal 1964 a oggi, ha aumentato il market price delle proprie quote di quasi il 2 mila per cento, mentre la performance rispetto all'andamento del S&P 500 è stata più alta dell'11 per cento. Dopo il periodo d'oro delle assicurazioni, con la Geico e la General Re a gonfiare il portafoglio, oggi il vero core business che spinge gli utili è certamente quello dell'industria hardcore. Dentro c'è un pò di tutto, ci sono quelli che Buffett chiama i Powerhouse Five (energia, trasporti, chimica e automotive): la Mid American Energy, i treni mercin della Burlington Northern Santa Fe, la Lubrizoil e le auto Marmon. Segno che la conglomerata crede ancora nelle prospettive di crescita dell'economia reale americana più che nelle montagne russe di Wall Street sono l'acquisizione di un altro gruppo dell'automotive, la Van Tuyl Automotive, e il recente investimento sull'Axalta Coating di Philadelphia, che si è appena quotata.  Ci sono poi le tre società simbolo della cultura Stati Uniti: la Coca-Cola, salendo al 9,2 per cento è saldamente controllata dal gruppo, l'American Express e la Heinz. Proprio dalla Heinz sono venute le maggiori soddisfazioni.

 

Buffett se l'intende splendidamente sia con il suo partner industriale, il Ceo della brasiliana 3G Capital Jorge Paulo Lemann, sia con i nuovi vertici della società delle salse, Alex Behring e Bernardo Hees. Con loro ha progettato l'ultima operazione, la fusione con un altro big dell'industria alimentare, la Kraft. Con loro sta macchinando la sua prossima battaglia, quella per la mostarda. Heinz ha infatti deciso di scalzare il monopolio sulla mostarda che è oggi in mano alla French's Food, con il 60 per cento del mercato americano, cominciando a vendere la propria mostarda. Una scelta voluta dal capo di Heinz Usa, Eduardo Luz. La guerra commerciale è stata inizialmente scatenata dalla stessa French's che due anni fa ha cominciato a pestare i piedi alla Heinz lanciando i suoi prodotti a base di ketchup. Elliott Penner, presidente della French's, ha risposto piccato all'attacco, "hanno fatto già mostarda per anni, non è andata bene". Chissà come andrà a finire. Da Buffett nessun commento e, mentre si prepara a festeggiare l'anniversario d'oro della Berkshire Hathaway, ha già scritto chiaramente il suo testamento: questa Woodstock per capitalisti sarà ancora a lungo la rocca di Gibilterra posta a difesa degli interessi economici americani. 

Di più su questi argomenti: