Foto tratta dal profilo Facebook di Christian Raimo

Chi crede al potere salvifico di biblioteche e teatri va difeso come i teneri panda

Costantino della Gherardesca

La mia idea di sinistra e quella di Christian Raimo (che ha organizzato e animato numerosi eventi con il movimento di cittadinanza attiva “Grande come una città”)

Ci sono persone lontane anni luce da me per carattere, cultura e formazione alle quali proprio non riesco a voler male. Sono quei tizi che inorridiscono quando sentono parlare di realpolitik, coltivano sogni di purissimo antagonismo e rincorrono con encomiabile perseveranza la propria vocazione minoritaria.

 

Nonostante la pensino in maniera molto diversa da me quasi su ogni cosa, la loro capacità di finire puntualmente travolti dagli eventi, me li rende simpatici. Si tratta di persone che – come il Corky St. Clair di Christopher Guest in Waiting for Guffman – vivono in una condizione di perenne innocenza o, se si volesse cercare il pelo nell’uovo, di ininterrotta fedeltà al personaggio che si sono ritagliati addosso: esseri umani che sono tutt’uno con la propria finzione, come attori costantemente in character, dentro e fuori dal set.

 

Sarò stupido, ma a persone così io non posso che volere un mondo di bene.

 

Per assurdo, questa gente che è convinta di essermi nemica, è proprio quella che tengo più vicina al mio cuore, perché la loro esistenza riempie la mia vita. Uno più malizioso di me potrebbe definirli naïf, ingenui o addirittura contortamente masochisti. Io mi limito a leggere in queste persone – vittime della loro bontà e degli eventi che li travolgono – una vena di dolce tristezza fantozziana che risveglia in me degli insopprimibili moti di tenerezza e, siccome sono figlio degli anni Novanta, delle ondate di voyeurismo spinto.

 

Qualche giorno fa, per esempio, mi è capitato di leggere su Facebook di una brutta avventura capitata a Christian Raimo. Christian è uno scrittore, un traduttore, un editor, un attivista di sinistra, un insegnante e, dall’estate del 2018, l’assessore alla Cultura del III Municipio a Roma, una porzione settentrionale della capitale che conta oltre 200.000 abitanti e che si estende a ovest del Tevere.

 

Nel corso di questi mesi, Christian non si è certo risparmiato: ha organizzato e animato numerosi eventi con il movimento di cittadinanza attiva “Grande come una città”, ha sostenuto la battaglia dei cittadini del Salario contro la discarica che li appesta giorno dopo giorno e ha sempre difeso il ruolo salvifico della cultura nelle realtà percepite come disagiate, perlomeno in confronto a via Monte Napoleone. L’ha difeso fino al punto di lasciarsi sfuggire affermazioni tanto perentorie quanto poco plausibili, come quando – recuperando una sua dichiarazione di quasi cinque anni fa – ha ribadito che l’unica ricetta contro la crisi consiste nel piazzare un teatro e una biblioteca in ogni quartiere (e dopo che la giornalista gli ha chiesto “Se il popolo però ti dicesse: ‘Ma noi abbiamo fame’?”, lui ha ripetuto senza fare una piega “Un teatro e una biblioteca in ogni quartiere”); o quando ha definito “rappresaglia” il gesto di un preside che ha promesso di punire gli studenti che avevano fatto occupazione mettendo loro un 6 in condotta nel primo trimestre. Ora, io credo che dalla crisi non si esca a suon di teatri e biblioteche, considerate le antipatiche contingenze dell’economia globale; alla stessa maniera, non credo che i figli della piccola borghesia romana che occupano i licei da decenni siano degli hezbollah e non paragonerei mai la minaccia di un 6 in condotta a una spietata tecnica di soppressione del dissenso: quel preside non è certo Videla e dubito che quegli studenti siano stati legati e torturati come accadeva ai dissidenti nel Garage Olimpo. Ma, soprattutto, non credo che si possa approdare a una visione d’ampio respiro limitando il proprio orizzonte politico ai provincialissimi confini di Roma Nord.

 

Senza nulla togliere al tono da pasionaria di Christian, la mia idea di sinistra è molto più lineare: combattere la povertà, estirpare il razzismo, promuovere l’uguaglianza. Una visione evidentemente troppo tiepida e “di destra” per chi è convinto che la vera sinistra sia quella che occupa i teatri per allestirvi spettacoli autoassolutori e poi si dilunga su questioni identitarie mettendo in ombra problematiche molto più urgenti.

 

Ma ciò non toglie che l’operato di Christian meriti la mia (e la vostra) attenzione. Soprattutto perché, alla luce di quanto gli è accaduto di recente, un pagliaccio televisivo come me non può che restare ammirato davanti alla tragicomica naïveté della vita di Raimo, una caratteristica che lo rende un personaggio quasi à la Todd Solondz.

 

Come dicevo, giorni fa sono venuto a conoscenza di una brutta storia di cui Christian si è ritrovato protagonista suo malgrado. Per farla breve, dopo aver ottenuto un finanziamento pubblico di circa cinquemila euro per organizzare una serie d’incontri e laboratori con numerose rappresentanti del femminismo italiano ed europeo, i soldi promessi si sono volatilizzati. Ma, a dispetto di ogni difficoltà, Christian e gli organizzatori si sono fatti coraggio e hanno chiesto alle ospiti di aver pazienza: i soldi che le varie relatrici avevano già anticipato di tasca propria per viaggio, vitto e pernottamento arriveranno prima o poi. Ancora non si sa come, ma arriveranno.

 

 

Non voglio (né saprei) entrare nel merito delle ragioni che hanno fatto andare in fumo questo piccolo finanziamento. Christian lo definisce “un demenziale intoppo burocratico” e io voglio credergli. Anche perché, per quanto mi imbarazzi ammetterlo, devo a lui e alla sua disavventura qualche minuto di lacrimazione, dal ridere.

 

Mi sono immaginato queste femministe nel panico, radunate sotto la finestra del povero Christian, a sventolare gli scontrini delle pizzerie in cui avevano cenato, impugnando le ricevute dei bed & breakfast in cui avevano passato la notte, tutte a urlare “RIMBORSO! RIMBORSO! RIMBORSO!”. Il femminismo, storicamente diviso in mille correnti contrapposte, per pochi minuti ha avuto un nemico comune. No, non si trattava del patriarcato, ma delle note spese inevase. Christian – almeno nella mia fantasia – ha compiuto un piccolo miracolo: ha messo d’accordo tutte queste anime.

 

Scherzi a parte, sono certo che nessuna delle ospiti avrà avuto nulla da ridire, un po’ per sincero attivismo, un po’ perché avranno capito che il povero Christian è vittima quanto e più di loro di questo impiccio burocratico. Per questo, cari autori e lettori del Foglio, vi prego di andare oltre le vostre appartenenze politico-ideologiche e di seguire la pagina Facebook di Christian Raimo in attesa che si inauguri il crowd funding che già tanti suoi sostenitori gli hanno consigliato di attivare.

 

Solo per questa volta, piantiamola di pensare solo alla stabilità economica dell’Italia o di preoccuparci in maniera concreta del destino dei migranti: apriamo il cuore e aiutiamo uno dei nostri. Anche perché i migranti sono persone che, bene o male, si sono fatte delle idee sulla geopolitica, hanno sbattuto il muso contro la realtà e in qualche modo riusciranno a cavarsela. Il povero Christian, invece, non ha strumenti per difendersi. Senza il privilegio economico di cui gode in quanto occidentale, lo stesso privilegio contro il quale è convinto di battersi strenuamente, non avrebbe spazio per la sua capricciosa militanza. Se non fosse cresciuto sotto la Nato, dubito che crederebbe nel potere salvifico di teatri e biblioteche. Anche se vive e prospera nell’enclave sandinista del III Municipio, non può dimenticarsi di essere parte di un sistema infinitamente più grande i cui meccanismi, crudeli quanto indispensabili, gli permettono di continuare a giocare a fare l’impegnato. Senza l’atterraggio morbido consentito dall’Europa cosmopolita, la stessa in cui Francesco Giuseppe I d’Austria conviveva con Arnold Schönberg, Adolf Loos e Sigmund Freud, la sua indifesa specie di intellettuali autoriferiti si sarebbe estinta da un pezzo.

 

Proteggiamo Raimo, alla stessa maniera in cui il governo cinese protegge i teneri panda. Lui non può fare a meno di noi, come noi non possiamo fare a meno delle sue romantiche performance identitarie.

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