Vocazioni e matrimoni sempre più in calo nella chiesa di Papa Francesco

Roberto Volpi

Il declino chiarito dai numeri dell’Annuario Pontificio, edizione 2016. Dire che la chiesa ha il problema di rievangelizzare il nostro continente è dire poco, perché la chiesa ha anche il problema di come rievangelizzare l’Europa, con quali forze e quali sacerdoti.

C’è un dato nell’Annuario Pontificio, edizione 2016, che da solo spiega ogni cosa. Il dato è in verità un indicatore, trattandosi del “potenziale di sostituibilità dei sacerdoti”, che è a sua volta il risultato del rapporto tra il numero dei seminaristi maggiori (coloro che frequentano il seminario maggiore per gli studi teologici, in pratica una università di teologia) e quello dei sacerdoti diocesani. Questo indicatore ha un valore di 66 in Africa, 54 in Asia e appena 10 in Europa: un seminarista maggiore ogni 10 sacerdoti. L’indicatore – un autentico dramma per la chiesa – delle mancate vocazioni in occidente (le cose vanno meglio in America ma siamo pur sempre sotto i livelli di guardia) è dunque lì, spiattellato e documentato senza infingimenti dai dati vaticani. Il valore di 10 appare ancora più striminzito se si pensa, peraltro, che in Europa i sacerdoti sono diminuiti di oltre l’8 per cento negli ultimi dieci anni. Dire che la chiesa ha il problema di rievangelizzare il nostro continente è dire poco, perché la chiesa ha anche il problema di come rievangelizzare l’Europa, con quali forze e quali sacerdoti. Non è un caso se sempre più di frequente capita di trovare nelle chiese delle nostre città sacerdoti africani e sudamericani.

 

Ma veniamo all’Italia. Per quanto il nostro rimanga il paese europeo con il più alto numero di sacerdoti rispetto alla popolazione e una più alta partecipazione alla vita della chiesa, la lenta erosione dei livelli di questa partecipazione è evidente. Un’erosione qualitativa, più che quantitativa. Si prendano le donne: fanno segnare tra il 2006 e il 2015 un calo della partecipazione che è di tre volte quello degli uomini. Quante si recano in chiesa almeno una volta alla settimana sono passate dal 40,5 al 34,3 per cento, perdendo 6,2 punti percentuali, contro i 2,4 punti persi dagli uomini. Si prendano i giovani di 14-24 anni. Tra il 2014 e il 2015, quanti di loro si recano in chiesa almeno una volta alla settimana passano da un già mediocre 17 per cento a un ancor più critico 14,4, che è la metà esatta della media generale – stabile nell’anno – attorno al 29 per cento. Calo giovanile del resto più che confermato dalla categoria (non) professionale degli studenti, che sempre tra il 2014 e il 2015 perdono più di 4 punti percentuali, scendendo dal 22 al 17,9 per cento e lasciando sul terreno, in un anno, tra un quinto e un sesto della loro partecipazione religiosa. La partecipazione degli anziani è in lieve aumento, è vero, ma non compensa i vuoti che lasciano le generazioni più giovani e istruite.

 

Il quadro delle criticità si completa coi matrimoni religiosi. Ne hanno parlato in tanti. Ma c’è qualcosa che si deve precisare. Negli ultimi 14 mesi – il 2015 e i primi due mesi del 2016 – dopo anni di amarezze i matrimoni hanno fatto registrare una ripresa d’un certo spessore: più 9.437 pari a più 4,7 per cento rispetto ai 14 mesi precedenti. Il fatto è che, mentre i matrimoni civili aumentavano di 11.268 unità, quelli religiosi continuavano a flettere di 1.831 unità. Il punto è questo: gli ultimi anni, in cui il numero dei matrimoni religiosi ha fatto registrare cali evidenti, sono stati contrassegnati da una stabilità – se non addirittura da una lieve flessione – degli stessi matrimoni civili. Una sorta di regola, quasi, che stava a significare che i matrimoni civili non riuscivano a recuperare i matrimoni persi della chiesa. Ed ecco che quando finalmente i matrimoni tornano a guadagnare qualcosa è solo merito dei matrimoni civili, che fanno un balzo di quasi il 12 per cento, mentre quelli religiosi perdono un altro 1,7 per cento.

 

Una divergenza di andamenti che accentua oltremisura la crisi del matrimonio religioso, che può ancora vantare un vantaggio su quello civile solo grazie al sud, mentre in tutto il nord e in buona parte del centro è stato già sopravanzato, e non di poco, da quest’ultimo. Questi dunque i fatti, che si prestano a una chiave di lettura che sembra imporsi da sola, come modulata dagli stessi dati. Ma come fare, allora, a non interrogarsi su quella che appare come una contraddizione stridente tra il successo – se vogliamo chiamarlo con un termine d’immediatezza non equivoca – di Francesco come figura e come Papa e l’insuccesso della chiesa che egli rappresenta dal Soglio più alto? In effetti, non ci si può non interrogare su come questo successo personale non riesca a evitare l’evidente declino del cattolicesimo in Europa (e non solo in Europa). Perché il rischio – se oltre a interrogarci non si trova anche qualche risposta o strada più o meno difficilmente spendibile – è proprio questo: che il declino diventi tramonto. Ed è un rischio che si tira dietro altri rischi epocali.

 

Se dieci anni fa quanti andavano in chiesa almeno una volta alla settimana erano quasi il doppio di quanti non ci andavano mai (33,4 per cento contro il 17,2 per cento), oggi il rapporto si è abbassato a 135: 135 persone che vanno in chiesa almeno una volta alla settimana ogni 100 persone che non ci vanno mai. Rapporto, questo, che nel centro Italia s’è già rovesciato – vanno in chiesa almeno una volta alla settimana 95 persone ogni 100 che non ci vanno mai –  nel nord si sta avvicinando a grandi passi alla parità (110) e solo al sud fa registrare un fossato che appare incolmabile (240).