Non solo letteratura
Saggisti d'Italia. Un'antologia per capire il Novecento
Il saggio è il genere letterario vasto e inafferrabile per eccellenza. Viaggio nella ricca biblioteca allestita da Alfonso Berardinelli e Matteo Marchesini. Con qualche riflessione
Tempo fa, alla fine di una lezione universitaria in cui avevo parlato del genere del saggio tra Otto e Novecento, ho chiesto agli studenti a chi, secondo loro, si attagliava il titolo di “saggista”, tra gli scriventi attuali, e loro mi hanno fatto i nomi di certi tremendi giornalisti onnipresenti in televisione e sugli scaffali della Varia. Ecco, ho pensato, ecco realizzata in modo stravolto l’idea di Fortini – già discutibilissima in sé – secondo cui l’intellettuale dovrebbe essere il contrario dello specialista: quello che per gli uomini della generazione di Fortini o di Cases era un invito a sapere tutto, a riflettere su tutto, è diventata la divisa di questi ciarlatani da talk-show, e così adesso si scambiano gli spacciatori di opinioni pensate male per saggisti insigni.
Avrei voluto rimandare gli studenti a un’antologia della saggistica contemporanea, così come si fa per la poesia, o per i racconti, o per la storia della critica letteraria; ma non esisteva. Adesso esiste, grazie alle cure di Alfonso Berardinelli e Matteo Marchesini: Saggisti italiani del Novecento (Quodlibet, 2025). Come dirò subito, non sono sicuro che si tratti di un libro alla portata degli studenti, ma è un libro bello, molto importante, destinato a durare, e di cui tutti coloro che hanno a cuore la cultura italiana seria devono essere grati ai curatori. Curatori che appartengono a generazioni diverse (Berardinelli è del 1943, Marchesini del 1979) ma – per come li conosco – hanno idee simili, nonché sul genere del saggio, sulla letteratura in generale e persino sulla vita (certamente, direi, su come va vissuta la vita intellettuale: nessuno dei due insegna – Berardinelli perché ha lasciato l’università molti anni fa, Marchesini perché non si è mai sforzato di entrarci; e tutti e due appartengono alla categoria gloriosa ma un po’ démodé dei critici militanti: scrivono articoli o saggi brevi, piuttosto che libri; e si pronunciano, entrando nel merito, su narratori, poeti e saggisti contemporanei: per lo più disapprovando. Sono anche molto bravi: Berardinelli è uno dei migliori critici della sua generazione; Marchesini è senz’altro il migliore della sua).
Le premesse al volume sono due, non una.
Quella di Berardinelli s’intitola Il Novecento e la forma del saggio ed è molto breve: ma il lettore sa di doverla integrare con due suoi libri dei quali questo è come il coronamento, anche nel senso che questa antologia della nostra saggistica non esisterebbe se Berardinelli non avesse preparato la strada insistendo per anni sull’importanza – che egli ritiene misconosciuta, in Italia – di questo genere letterario: Autoritratto italiano. Un dossier letterario 1945-1998 (Donzelli, 1998) e La forma del saggio (Marsilio, 2002), e in più il capitolo Letterati e letteratura negli anni Sessanta nella Storia dell’Italia repubblicana (Einaudi, 1995). Il saggio, scrive Berardinelli nella sua premessa, è stato “il genere dell’individualismo critico”, e tale deve continuare a essere, posto che ora gli intellettuali “sono soprattutto specialisti, studiosi, ricercatori, accademici”, insomma gente pagata per “produrre cultura” sotto forma di istruzione, quasi per forza di cose conformista e standardizzata. Mentre il saggio è “la forma del pensiero critico su base autobiografica e ‘in situazione’. E ha ben poco in comune con quanto editorialmente si intende per saggistica, cioè trattazione monotematica scritta da esperti di settore”.
Marchesini scrive invece un amplissimo saggio storico, che prima colloca il genere del saggio nella storia della letteratura europea, poi traccia una mappa della saggistica italiana del Novecento, infine spiega e giustifica la scelta antologica. Sono cinquanta pagine fitte che si leggono con ammirazione sia per la qualità della scrittura (a volte sì, molto scorciata, apodittica, sovrabbondante in metafore, come non di rado nei saggi di questo studioso), sia per il rigore dell’argomentazione, sia per la dottrina. S’impara molto, e quasi a ogni paragrafo al lettore vengono in mente delle idee; e su quasi tutto si finisce per concordare, anche sull’ironia ai danni di certo vacuo saggismo contemporaneo, tra giornali, università e social network. Eundo, Marchesini dà anche lui una definizione del saggio che combacia con quella di Berardinelli: lontano dai “prodotti accademici interdisciplinari o da un giornalismo di instant books”, il saggista “ci ricorda che non si può capire la realtà senza osservarla ed esprimerla partendo dalla propria singolare esperienza, da un’immaginazione intuitiva ma non per questo poco rigorosa”. Insomma: profonda conoscenza delle cose (“uno scrittore di questo tipo non può fare a meno di dati o di ‘giornali’”), ma filtrata da un io che non si nasconde, che non cerca l’oggettività ma argomenta efficacemente – nei casi migliori anche con uno stile riconoscibile – le sue opinioni, le sue idiosincrasie; un io del quale insomma si sente nitida la voce.
Scrive Marchesini: “Da un tentativo di mappatura [del territorio saggistico] è fatale che esca un panorama discutibile in un senso più radicale di quanto non lo siano per natura tutte le operazioni antologiche. Ci auguriamo infatti che questo lavoro sia discusso, e magari dia luogo a delle controproposte”. Secondo questo spirito, accenno a quelli che a me paiono gli aspetti del volume non pienamente convincenti. Ne accenno sinteticamente, come se fossimo in un seminario, e anziché monologare si potesse dialogare (e sono certo che in un dialogo i due curatori, che sono migliori dialettici di me, mi risponderebbero a tono, a volte facendomi cambiare idea, a volte no).
Questo è un libro che non c’era, e che si aspettava da tempo. Come accennavo, io pensavo anche che, una volta uscito, lo si sarebbe potuto adottare all’università, nei corsi di letteratura italiana, letterature comparate, storia della critica. Ma è troppo voluminoso, e troppo difficile. Millequattrocentocinquanta pagine sono troppe per qualsiasi corso, triennale, magistrale, dottorale. Sono troppe per chiunque non conosca già, per chiunque non sappia già orientarsi nella saggistica italiana del Novecento. Ma, si obietterà, si possono ritagliare dei percorsi, leggere o far leggere certi testi e certi altri no. Certo, se lo si sa fare. Ma da questo punto di vista il libro non aiuta molto. I saggi non sono raggruppati per generi o temi (poniamo: personal essay, reportage, saggio letterario, pamphlet, collezione di aforismi) ma secondo cronologia. Così, una lettera di Chiaromonte a Caffi viene dopo le pagine sulla scuola di Calogero, e Calogero a sua volta segue i saggi sulla letteratura di Debenedetti e due brani dal Cristo e dall’Orologio di Carlo Levi, e così via. Prima, in una specie di vestibolo o limbo, ci sono alcune pagine dedicate a Benedetto Croce e Gabriele d’Annunzio: Due modelli, dice il titolo preposto alle loro pagine. Ma da un lato, in generale, mi sembra che, nel caso di un genere fluido e idiosincratico come il saggio, fissare genealogie sia ancora più difficile di quanto non sia per la prosa d’invenzione o per la poesia; dall’altro, in particolare, mi sembra che l’influenza di questi due influentissimi scrittori si giochi su altri piani, e che in ogni caso andrebbe motivata meglio di quanto non si faccia qui (e veramente non avrei antologizzato né il taccuino di D’Annunzio turista in Grecia né La perfezione e l’imperfezione, che mi pare una prova del Croce più verboso e innocuo).
Un libro del genere avrebbe avuto bisogno di un apparato di commento un po’ più sostanzioso. Non dico un apparato continuo di note al piede; ma qualche nota sì, anche solo per dare al lettore le informazioni necessarie a situare il saggio che si appresta a leggere. D’altra parte, gli autori e i loro saggi sono sì introdotti in pagine penetranti; ma è un peccato che queste pagine stiano o nell’introduzione di Marchesini (penso a quelle perfettamente centrate su Serra o sulla Ginzburg) o al fondo del volumone, non in testa ai saggi cui si riferiscono, obbligando a un andirivieni abbastanza scomodo; ed è un peccato che la misura di questi medaglioni sia breve o brevissima: troppo, per autori e testi spesso molto complessi, e su cui Berardinelli e Marchesini avevano e hanno certamente molto altro d’interessante da dire (lo so perché ho letto ciò che negli anni hanno scritto a proposito degli autori raccolti in questa antologia). Certo, le pagine non potevano diventare duemila. Ma forse si poteva essere più selettivi nella scelta degli autori (francamente mi pare che non manchino i superflui e gli immeritevoli), o si poteva evitare di antologizzare i viventi (non sempre all’altezza), dando più spazio alla voce dei curatori (che è poi più o meno quello che Berardinelli ha fatto nei libri summenzionati): il lettore non onnisciente avrebbe apprezzato.
Vengo al contenuto, alla scelta degli autori e delle pagine da antologizzare. Davanti a un volume di 1450 pagine suona quasi ridicolo lamentare le lacune: si tratta di una selezione larghissima, fatta sulla base di princìpi piuttosto chiari, che tra gli altri meriti ha quello di riportare alla luce nomi e testi che anche il lettore specialista potrebbe non conoscere o aver dimenticato. Il recensore scontento non ha che da lavorare alla sua ideale antologia. Dunque provo a prenderla un po’ più alla lontana.
A me pare che la gran parte dei saggi che meritano questo nome si possa riunire in tre distinte famiglie: (1) le storie di vita, o personal essays, e insomma i saggi centrati sulla vita concreta o mentale di un io; (2) i saggi che parlano del mondo, e in cui l’io figura soltanto come testimone, e mai in primo piano; e (3) i saggi sulle arti, sulla filosofia e sulla storia. Ora, a me pare: che, per quanto riguarda la prima famiglia, ben poco sia stato prodotto in Italia, nel corso del secolo, che possa reggere il paragone tanto con i grandi esploratori dell’io pre-novecenteschi quanto con i grandi romanzieri o autobiografi novecenteschi; che, soprattutto grazie alla diffusione della stampa quotidiana e periodica, la seconda famiglia sia stata produttiva, in quantità e qualità, come mai era stata nell’età moderna; e che, specie a causa del diffondersi del sapere universitario col suo by-product, il saggio universitario, la terza famiglia o tipologia si sia popolata nella nostra epoca di un’infinita quantità di oggetti: per lo più indegni di lettura, prima ancora che di antologizzazione; ma a volte eccellenti, memorabili.
In Saggisti italiani del Novecento c’è una discreta rappresentanza della famiglia (1), com’è giusto: ma sono personal essays di letterati (Serra, Cases), o addirittura di professori di letteratura (Macchia, Brioschi, Bertini); uno avrebbe pensato semmai a Lussu, Nuto Revelli, Rigoni Stern, o a tanti altri ottimi autobiografi novecenteschi (Servabo di Luigi Pintor davvero non può non esserci!).
C’è invece una rappresentanza a mio avviso non adeguatamente ampia della famiglia (2). Mi pare, in sostanza, che i curatori abbiano tirato una linea troppo netta tra giornalismo e saggismo, non dando la giusta importanza al primo, o meglio non riconoscendo nel primo uno dei luoghi in cui si dispiegano le virtù del saggismo novecentesco. Avrebbero avuto senz’altro ragione se si fosse trattato di giudicare il giornalismo odierno, che è generalmente mediocre o pessimo, soprattutto per mancanza di lettori e di denaro (e perciò, di riflesso, di talenti che vogliano o possano dedicarsi a questo genere di scrittura). Ma nel Novecento i pezzi da giornale o da periodico sono stati spesso modelli d’intelligenza e di stile: e se non sono saggi degni di memoria quelli di Camilla Cederna (mettiamo: i suoi ritratti della borghesia milanese anni Cinquanta e Sessanta) o di Giorgio Bocca (mettiamo: il capitolo Il processo guerriglia in Noi terroristi, o gli articoli sul boom economico in Miracolo all’italiana e in La scoperta dell’Italia), o anche di Montanelli (mettiamo: Italia sotto inchiesta, che è uno dei documenti più importanti sull’Italia degli anni Sessanta) mi domando che cos’altro possa passare dalla cruna di quest’ago.
Quanto alla famiglia (3), cioè ai saggi sulle arti, sulla filosofia e sulla storia, in coerenza col trattamento delle famiglie (1) e (2), la trovo sovra-rappresentata. Naturalmente, la scelta di accordarle molto spazio è del tutto legittima, ma farei due considerazioni. Da un lato, se ciò che conta, in questi saggi, è la loro importanza storica, bisognava – per esempio – antologizzare pagine come quelle di Adriano Tilgher su Pirandello (ma Tilgher ci voleva comunque: il Tilgher studioso Leopardi, o il contraddittore di Croce, o il critico della cultura contemporanea), o di Bruno Nardi su Dante; se invece contano la qualità dello stile e l’intelligenza del giudizio, ognuno può pensare, intorno agli autori e ai testi che gli sono familiari, a pagine migliori di quelle che qui si trovano antologizzate. Poniamo: Roncaglia sulla letteratura del Medioevo, Folena su Goldoni, Dionisotti sul Rinascimento, Mengaldo sulla poesia del Novecento, La Penna sulla letteratura latina e via dicendo. Dall’altro lato, ed è la seconda considerazione, perché limitarsi ai saggi sulla letteratura, perché non dare il rilievo che senza dubbio meritano agli scritti sul Rinascimento di Garin, o a quelli di Momigliano sulla storia antica, o di Sergio Ricossa o Carlo Cipolla sulla storia economica, o (da affiancare a quelle, ottime, di Calogero e Armellini) di Lucio Russo sulla scuola, o…? Il Novecento è stata l’Età della Critica, in ogni settore e dominio, dalla letteratura alla musica classica e pop, dalla storia alle scienze sociali: è certamente una buona ragione per antologizzare i critici e gli studiosi; ma è un’ottima ragione per non moltiplicarne il numero oltre necessità, altrimenti si finisce per avallare il pregiudizio che la saggistica sia roba da eruditi.
Voglio dire che per essere un’antologia allestita da due studiosi che non lavorano nell’università, e che anzi con molta ragione non amano quella branca della saggistica che è la saggistica universitaria, mi pare che ci sia dentro un numero sorprendente di professori. Inevitabile, dato che sono i professori quelli più bravi a dar forma scritta alle loro opinioni, ad argomentare? Mah. Un quarto di secolo fa uscì negli Stati Uniti un’antologia curata da Joyce Carol Oates e Robert Atwan che raccoglieva i Best American Essays of the Century. Dentro c’è sì La tradizione e il talento individuale di Eliot, ma ci sono anche narratori che, a latere del romanzo, hanno coltivato il genere del saggio, di solito quella sottospecie del saggio che è il personal essay (particolarmente vivo e interessante, negli Stati Uniti, anche a causa della questione razziale: The Ethics of Living Jim Crow di Richard Wright, How It Feels To Be Colored Me di Zora Neale Hurston, Notes of a Native Son di James Baldwin; ma anche Past Perfect di Nabokov). E soprattutto ci sono i saggi sul mondo (la nostra famiglia 2): pagine e pagine dedicate all’esplorazione, alla descrizione della società, degli altri, ma anche alla biologia, alla storia contemporanea, al mondo degli animali, ai concorsi di bellezza… A fronte di tutto questo, se non vedo male, nessun saggio su un libro o uno scrittore. Nelle antologie di Best American Essays successive, dal 2000 in poi, mi pare che questo genere di non-fiction writing orientata sul mondo abbia via via occupato sempre più spazio: forse perché è un tipo di scrittura nella quale gli anglosassoni eccellono, forse perché nel mondo anglosassone esistono riviste che la chiedono e la pagano, o per entrambe le ragioni. E’ un tipo di scrittura che, mi pare, Berardinelli e Marchesini faticano a considerare “saggio”, tanto poca ce n’è nella loro raccolta, ed è – dicevo – una scelta che si comprende e si accetta; ma leggendo Saggisti italiani del Novecento si ha ogni tanto l’impressione di trovarsi chiusi tra i quattro muri di una (splendida) biblioteca, e un’iniezione di realtà raccontata con stile (quella che si trova nei reportage dei giornalisti-scrittori che ho citato sopra: ma di tanti altri, da Giovanni Russo ad Antonio Cederna, alla Fallaci…) avrebbe dato al tutto un’aria meno professorale.
Meno professori, o meno letterati, avrebbe voluto dire anche altre due cose. In primo luogo, stili di scrittura meno atteggiati e meno oscuri. Io confesso di non capire, infatti, ampi tratti di alcuni dei saggi qui antologizzati; o li capisco soltanto con uno sforzo d’attenzione sproporzionato al profitto che mi pare di trarne. Credo, anzi so, che proprio l’astrattezza, la fumosità, il non parlar chiaro o il parlare per troppe metafore e allusioni e citazioni, le varie sottospecie del gergo (filosofico, psicanalitico, sociologico, teorico-letterario…) – so che tutto questo, soprattutto nei dipartimenti umanistici delle università, viene spesso visto come il portato necessario, la proiezione sul piano formale della profondità di pensiero. Ma non è vero. Nella prosa argomentativa l’oscurità copre spesso la confusione, il niente, se non addirittura una ridicola vanità. Forse, per fissare il concetto, sarebbe stato il caso di antologizzare, insieme ai bei pezzi su Comisso e sul Laos, la risposta di Goffredo Parise a un articolo di Fortini per il Corriere della Sera intitolato Perché è difficile scrivere chiaro: “Ma Fortini, guarda che ti sbagli, guarda che è facile, facilissimo invece. Tutto dipende dalla forza del sentimento che ti spinge a comunicare con gli altri uomini, e poi dalla logica e poi dall’uso degli strumenti, cioè dall’uso della parola detta o scritta” (l’articolo partiva ancora più dritto: “Di questo articolo che tendeva a dimostrare con chiarezza programmatica la difficoltà dell’esprimersi con la parola scritta – ‘nero su bianco’ come si dice – non ho capito nulla”: si legge in Quando la fantasia ballava il boogie). Forse su questo i due curatori – che non solo sanno scrivere chiaro ma non amano le fumisterie (a provarlo, a parte la conoscenza dei loro scritti, bastano le pagine molto acute e divertenti di Berardinelli qui antologizzate su/contro Heidegger), avrebbero potuto essere più selettivi, premiare la chiarezza, non dare spazio a certe torbide profondità: e alla selezione li avrebbe appunto aiutati quella prosa saggistica fatta di cose viste, più che di cose pensate, che si trova in un libro come The Best American Essays of the Century, cioè – s’intende – l’equivalente italiano di quella prosa.
In secondo luogo, antologizzare meno professori e più giornalisti scrittori memorialisti pubblicisti avrebbe dato forse al libro – già minaccioso per la mole – una maggiore levità, dunque una maggiore leggibilità. Nella sua introduzione, Marchesini cita gli antenati del saggio inteso come “biografia delle idee” tra Sette e Ottocento: “Voltaire, Diderot, Rousseau, Swift, Addison, Steele, Lamb, Hazlitt”; e prima ovviamente Montaigne. Splendida genealogia, ma non si può davvero dire che dal loro spirito, dal loro Witz, dalla loro conversevole saggezza abbia granché imparato la maggior parte di questi saggisti italiani del Novecento. Ho detto “avrebbe dato forse”, perché è probabile che una certa gravezza, una certa propensione per la toga e il coturno appartengano a quasi tutti coloro che, in Italia, prendono la penna in mano. Qui, ha scritto una volta Flaiano, “regna il culto dell’arte e della poesia in senso assoluto. Ognuno, scrivendo, ha per modelli la Divina Commedia, I promessi sposi, I Malavoglia”. Tanto più si apprezzano, nel volume, i brani per lo più molto ben scelti di quei saggisti-scrittori che una volta o sempre sono riusciti a immunizzarsi da questo morbo nazionale: evviva Soldati, Brancati, Bianciardi, Cases, Eco, Raboni, Fruttero e Lucentini!
Quanto a questi ultimi, aggiungo solo un’osservazione, da torinese e da fan. Fruttero e Lucentini ci sono, com’è giusto, ma con tre sole paginette, e stavolta non ben scelte (bisognava mettere La zia occulta, che è un saggio sul genocidio culturale degli italiani più giusto e più bello di quelli di Pasolini; o ancora meglio Night of the Telegram del solo Fruttero, che spiega l’intellighenzia italiana di metà Novecento meglio di cento trattati), e nel profilo si dice che con i gialli La donna della domenica e A che punto è la notte “gli autori dimostrano la loro abilità nel confezionare un prodotto di consumo che consente una fruizione su vari livelli. Degni di nota sono anche i pezzi di satira e critica culturale, sempre di grande leggibilità e d’impeccabile fattura artigianale (ma anche sempre al limite del qualunquismo)”. Invece no: La donna della domenica è uno dei grandi romanzi italiani del secolo scorso, e Fruttero e Lucentini erano l’esatto contrario di due qualunquisti: l’esatto contrario.
ristampato un altro aureo libretto di Carlo M. Cipolla