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verso il benessere

Leggere Victor Hugo per capire che il fine della politica non è la felicità

Michele Silenzi

La miseria deve scomparire, ma l’unico modo per produrre ricchezza è quello capitalista. Appunti per gran parte della sinistra contemporanea

Nella nota introduttiva ai Miserabili, nell’edizione Oscar Mondadori, viene riportata una frase di un celebre discorso sulla miseria tenuto da Victor Hugo all’Assemblea legislativa del 17 luglio 1849: “La sofferenza non può scomparire, la miseria deve scomparire. Vi saranno sempre degli infelici, ma può darsi che non vi siano più dei miserabili.“

In queste poche frasi vi è un’intera idea di mondo e di azione politica. Innanzitutto, ciò che specifica Hugo traccia con inequivocabile chiarezza una distinzione tra felicità e miseria. La prima attiene a quella che potrebbe essere considerata la struttura “qualitativa” dell’esistenza umana, la seconda a quella “quantitativa”. Senza dimenticare che una buona vita a livello quantitativo si può certo sviluppare in una migliore vita a livello qualitativo.

      

 

Detto questo, l’idea che coglie perfettamente Hugo nella sua icastica frase può essere anche esplicitata in un altro modo, ossia comprendendo che la povertà è la condizione naturale dell’uomo, mentre non lo è il benessere né tantomeno la ricchezza. Benessere e ricchezza sono possibili perché vengono prodotti. E le condizioni di possibilità di questa produzione sono sempre reversibili, non stanno in piedi per miracolo. L’unico modo per produrre ricchezza è quello capitalista, semplicemente non ve n’è un altro. E’ una realtà del mondo secondo quelle che sono le leggi del comportamento degli uomini e delle loro stesse caratteristiche esistenziali e relazionali.

L’alleggerimento del peso della miseria, la necessità di mettere le persone in grado di vivere dignitosamente, l’aumento delle possibilità di vita, tutto ciò avviene grazie a un determinato modello di produzione: un orizzonte quantitativo che si tramuta poi in opportunità qualitative. Il miglioramento delle condizioni di vita deve essere abilitante per l’emancipazione del singolo, ossia per permettergli di autodeterminarsi nel modo che ritiene più opportuno, nel modo più libero. Ecco ciò che significa che “la miseria deve scomparire”, permettere a tutti di uscire dallo stato di minorità sociale ed economica in cui non è possibile alcun avanzamento di quei “bisogni superiori” di cui poi si compone una vita piena.

Tutto ciò, però, si è già compiuto, o meglio, si sta compiendo con una rapidità e un successo che lo stesso Hugo non credo avrebbe mai potuto immaginare per i suoi miserabili, e ciò avviene grazie a uno specifico modello economico. Tuttavia, potrà sempre esserci una regressione, perché nessuno stato di cose è permanente, e questo è bene capirlo pienamente. La ricchezza e il benessere raggiunti sono figli di condizioni sempre mutabili in base a scelte di natura politica, che sono sempre legittime, ma che talvolta possono essere figlie di obnubilamenti della ragione.

La cosa però forse più rilevante della frase di Hugo è la presenza di spirito nel sottolineare la differenza tra la questione economico-politica della miseria e la questione della ricerca della “felicità” o della possibilità di abolire la sofferenza. Sebbene la cosa appaia ovvia, così non è oggi nel momento in cui a quello che è un modello economico-politico di straordinario successo viene rivolta l’accusa di non essere stato in grado di eliminare la sofferenza o di avere superato definitivamente l’infelicità.

In fin dei conti, è questo il cuore di quello che si definisce “discorso intersezionale”, e che non è una pura espressione accademica, bensì è il cuore delle argomentazioni della gran parte della sinistra contemporanea (e il motivo per cui questa non riesce a formulare una proposta politica che abbia appeal al di là dei vecchi aficionados, dei giovani idealisti e delle minoranze suscettibili).

Per cercare di essere più chiari, il discorso intersezionale non è altro che quel discorso in cui tutto si tiene, in cui tutti gli sventurati della Terra sono assimilati ponendo al centro della propria argomentazione un unico imputato: l’uomo occidentale, spesso ma non più sempre bianco ormai, capitalista. Dalle vittime del cambiamento climatico alla violenza sulle donne, dai palestinesi ai diseredati del Sudamerica, dai malati di Aids africani alle donne e uomini che non si sentono né donne né uomini ma sono oppressi dall’orrore dell’identità sessuale, dalla foresta amazzonica e relative tribù agli animali negli allevamenti intensivi, etc. Tutto sta all’interno di un unico grande discorso in cui di miseria economica se ne vede poca (e quando vi è ci si lavora alacramente con programmi di aiuti internazionali strafinanziati dai paesi più ricchi del mondo) ma in cui il cuore del discorso è tutto incentrato su una sofferenza e su una infelicità che per un motivo o per l’altro non possono essere estirpate.

Ciò che può essere imputato al capitalismo è che compiendo il suo miracolo economico ha illuso che tutto, ma proprio tutto, fosse possibile. Ossia che anche qualsiasi fonte di infelicità esistenziale o metafisica potesse essere superata attraverso il benessere economico. Che persino, per fare un esempio su tutti, chi si sente donna ma è nato uomo possa effettivamente diventare donna semplicemente dichiarandosi tale (e giù a cascata tutto il resto). Eppure, è ovvio, semplicemente che non è così.

Al centro dell’esistenza umana vi è un desiderio invincibile, un’insoddisfazione impossibile da soddisfare. Dentro un essere limitato, l’uomo, vi è un desiderio infinito che se da un lato lo avvicina a ciò che chiamiamo Dio con questa sua prossimità all’infinito, dall’altra lo può rendere un demonio, perché talvolta si è disposti a tutto pur di provare ad avvicinarlo quell’infinito. La sofferenza e l’infelicità dell’uomo sono “metafisiche” perché stanno proprio in questo scarto tra finito e infinito.

La frase di Hugo resta memorabile perché traccia i limiti dell’attività politica, e da quei limiti la ricerca della felicità e l’eliminazione della sofferenza stanno fuori. Qualsiasi pretesa diversa diviene facilmente, in un modo o nell’altro, più o meno violento, più o meno inclusivo, più o meno travestito di buone intenzioni, totalitaria.

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