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sul lavoro e sulle macchine
La civiltà tecnologica secondo Hannah Arendt. Oltre la banalità del male
“Il suddito ideale del regime totalitario è l’individuo per il quale la distinzione fra realtà e finzione, fra vero e falso non esiste più”, sosteneva la scrittrice. A cinquant’anni dalla morte, si conferma più attuale che mai
Hannah Arendt morì a New York il 4 dicembre 1975. Di lei si ricordano solitamente due famosissimi libri: Le origini del totalitarismo (1951) e il controverso reportage sul processo Eichmann noto come La banalità del male (1963). Sono questi i libri che l’hanno resa famosa. Ma a cinquant’anni dalla sua morte credo che valga la pena ricordarne almeno altri due: The Human Condition (1958), pubblicato in italiano col titolo Vita activa, forse il suo libro più bello, e La vita della mente, pubblicato postumo e rimasto incompiuto. Una riflessione sul lavoro, il mondo delle macchine, l’agire, il pensare e la libertà, tanto originale e profonda quanto ancora attuale. Cerchiamo di vederne alcuni aspetti.
La polemica con Karl Marx rappresenta forse uno degli aspetti più brillanti del pensiero di Hannah Arendt. Contrariamente a Marx che aveva fatto del lavoro “L’essenza, l’essenza che si avvera dell’uomo”, secondo la celebre espressione dei Manoscritti parigini del 1844, Hannah Arendt considera l’uomo che lavora, l’animal laborans, una sorta di schiavo, legato ai ritmi della natura e delle necessità naturali. “Lavorare – dice la Arendt – significa essere fatti schiavi dalla necessità”. Per questo i greci ritenevano necessario disporre di schiavi, che, “come strumenti animati” e “come animali domestici”, parole della Politica di Aristotele, provvedevano appunto “alle necessità della vita”. Senza di essi non ci sarebbe stato tempo per dedicarsi alla politica, né alla filosofia, ovvero le attività umane più alte. Con parole hegeliane, potremmo dire che in questa prospettiva lo schiavo è l’“astuzia”, il primo strumento, che l’uomo mette tra sé e la natura per poter sopravvivere e per poter condurre una vita umanamente degna.
Può apparire inquietante che la “civiltà tecnologica” trovi nello “strumento animato” aristotelico uno dei suoi antesignani più emblematici. Sta di fatto che è la nostra particolare condizione umana ad esigere la strumentalità, ossia qualcosa che ci aiuti a vincere la dura necessità della natura – la fame, la sete, il freddo –, consentendoci in questo modo di dedicarci ad attività più alte come la politica o la filosofia. La famosa espressione marxiana, secondo la quale il lavoro sarebbe una forma di “ricambio organico” tra uomo e natura, presa alla lettera, è forse la più adatta a esprimere il significato che la Arendt attribuisce all’attività dell’animal laborans: un’attività di rango inferiore, legata alla mera sopravvivenza dell’uomo, accanto alla quale, ma senza confonderla, va posta quella dell’homo faber, l’uomo che costruisce strumenti, macchine, cose, case, palazzi, monumenti, città.
Questa considerazione dell’animal laborans appare invero piuttosto indigesta per la nostra sensibilità. Oggi tendiamo infatti a pensare che lavora il contadino, così come lavora chi costruisce un’astronave o chi inventa gli algoritmi delle nostre macchine intelligenti. Quanto al lavoro dei campi, esso non imprigiona più alla natura come avveniva in passato. Ma il punto non è questo. Anche ammesso che si possano chiamare “lavoro” tutte le attività umane, il punto centrale del discorso arendtiano sta nell’aver rilevato la differenza tra un lavoro che produce beni, come il cibo, che servono alla nostra sopravvivenza fisica e che dobbiamo quindi consumare per sopravvivere, giacché come diceva Aristotele “senza il necessario è impossibile sia vivere sia vivere bene”, e un lavoro che invece produce oggetti, cose, diciamo pure un mondo umano, fatto dagli uomini, senza il quale non si danno politica né storia. La Arendt evidentemente sapeva bene di aver toccato un tema importante: “La distinzione che propongo è insolita – scrive. L’evidenza fenomenica che la caratterizza è troppo clamorosa per essere ignorata e tuttavia storicamente è un fatto che, a parte qualche considerazione sparsa e mal sviluppata anche nelle teorie dei rispettivi autori, non c’è quasi niente né nella tradizione di pensiero politico pre moderna né nelle moderne teorie del lavoro che giovi a convalidarla”. Cerchiamo dunque di vedere come si configura il mondo dell’homo faber.
In una pagina molto bella di Vita activa, Hannah Arendt sostiene che “La discussione del problema globale della tecnologia, cioè della trasformazione della vita e del mondo operata dall’introduzione della macchina è stata stranamente sviata da una troppo esclusiva concentrazione sul servizio o sul disservizio che le macchine rendono agli uomini. Qui l’assunto è che ogni arnese o utensile sia principalmente designato a rendere la vita umana più facile e il lavoro umano meno penoso. La loro strumentalità è intesa esclusivamente in questo senso antropocentrico. Ma … l’homo faber inventò arnesi e strumenti al fine di erigere un mondo e non – o almeno non principalmente- per coadiuvare il processo vitale umano. La questione, quindi, non è tanto di vedere se siamo i padroni o gli schiavi delle nostre macchine, ma se le macchine servono ancora il mondo e le sue cose, o se, al contrario, con l’automatismo dei loro processi abbiano cominciato a dominare e anche a distruggere il mondo e le cose”.
Qui la critica della Arendt alla civiltà tecnologica, per quanto risalga a settant’anni fa e non consideri ciò che oggi abbiamo sotto i nostri occhi, è di una radicalità che merita di essere sottolineata. Ma prima di procedere occorre una precisazione.
La Arendt legge le implicazioni pratiche della tecnologia, ossia della sostituzione di arnesi e utensili con le macchine, alla luce dell’ultimo suo stadio: l’avvento dell’automazione. Ai suoi occhi l’automazione ha prodotto cambiamenti che non possono essere sottaciuti. Un conto è la macchina a vapore, la quale è ancora caratterizzata dall’“imitazione di processi naturali e dall’uso di forze naturali per scopi umani, che non differivano in linea di principio dal vecchio uso della forza dell’acqua e del vento”; altro conto è lo stadio caratterizzato dall’uso dell’elettricità. Qui non si tratta più di un allargamento, grande quanto si vuole, delle antiche arti e mestieri; non si tratta più di un mondo al quale si applicano le tradizionali categorie dell’homo faber: ogni strumento è un mezzo per raggiungere un fine prescritto. Non si tratta più nemmeno di mutare o denaturalizzare la natura al fine di costruire il nostro mondo umano artificiale nettamente distinto da essa. Con l’elettricità abbiamo piuttosto “creato”, diciamo pure liberato processi naturali che non si sarebbero mai liberati senza di noi, inserendoli con tutta la loro potenza nel nostro mondo artificiale. E questo produce, secondo la Arendt, due effetti allarmanti: in primo luogo potrebbe venir meno il carattere intenzionale del mondo umano; in secondo luogo il mondo umano potrebbe diventare una sorta di “seconda natura” i cui processi rischiano di essere tanto pericolosi per l’uomo, quanto lo erano i processi naturali prima che si sviluppasse la tecnologia. Ovvio che le odierne macchine intelligenti potrebbero accentuare ancora di più questi rischi. Ma andiamo per ordine.
Perché con l’automazione potrebbe venir meno il carattere intenzionale del mondo? Perché la produzione degli oggetti si trasforma in un processo continuo, dove all’uomo viene risparmiata ogni fatica, non soltanto quella di produrre gli oggetti, ma anche quella di controllare i processi, visto che a tutto provvedono le macchine. Soprattutto l’automazione tende ad indebolire la convinzione “che le cose del mondo attorno a noi dipendano da disegni umani e siano costruite secondo i criteri umani dell’utilità e della bellezza”. E’ ormai soltanto l’operazione della macchina che determina questi criteri. Le cose sembrano farsi da sole. Si pensi soltanto alla logica che sta guidando l’odierna innovazione tecnologica, quella delle macchine intelligenti: una logica ferrea, autoreferenziale, capace di fagocitare tutto dentro di sé – politica, economia, scienza – e semplicemente da assecondare se non si vuole rimanere indietro. Poco conta se per assecondarla siamo costretti a sacrificare la possibilità di controllarne in qualche modo gli esiti, i rischi e le opportunità. Con le parole di Hannah Arendt si potrebbe dire che le nostre macchine intelligenti non sembrano sottostare più ai nostri fini intenzionali.
Di conseguenza, ecco il secondo effetto preoccupante della società tecnologica, c’è il rischio che il mondo artificiale umano e i suoi oggetti d’uso si trasformino in un mondo che perde la sua stabilità, la sua durata, poiché anche i suoi oggetti d’uso diventano oggetti di consumo. Anziché essere fatte per durare, le cose del mondo sembra che debbano essere “consumate” come si consumano i prodotti naturali, onde evitare che si facciano cattivi, che vadano in malora. Questo vedeva Hannah Arendt circa settant’anni fa. Un attacco al consumismo, il suo, che non si basa tanto sul fatto che vengono alimentati i nostri desideri senza fine, quanto piuttosto sul fatto che viene distrutta la stabilità del mondo, trasformando quest’ultimo in una sorta di “seconda natura”, anch’essa sottoposta a necessità. Se dunque ieri, per vivere in libertà gli uomini dovevano sottrarsi alla necessità della “prima” natura, oggi che l’hanno vinta, devono sottrarsi alla necessità della “seconda”. Un tema, questo, che quasi certamente la Arendt mutua da Simmel, sviluppandolo tuttavia nel modo originale che segue: “Per essere ciò che il mondo ha sempre rappresentato, una casa per gli uomini durante la loro vita sulla terra, la sfera artificiale umana deve essere fatta per l’azione e per il discorso, per attività non solo del tutto inutili per le necessità della vita ma anche di natura completamente differente dalle molteplici attività di fabbricazione da cui sono prodotti il mondo stesso e tutte le cose che vi sono. In questa sede non abbiamo bisogno di scegliere tra Platone e Protagora, o di decidere se sia l’uomo o un Dio la misura di tutte le cose; ciò che è certo è che la misura non può essere né l’impellente necessità della vita biologica e del lavoro né lo strumentalismo utilitaristico della fabbricazione e dell’uso”. Né, potremmo aggiungere noi, un’innovazione tecnologica che diventa fine in se stessa, come se gli uomini non esistessero.
E siamo giunti così all’ultima parte di questo mio discorso, quella che riguarda l’agire.
In un modo che non ha riscontri in nessun altro pensatore dell’occidente, la Arendt connette l’agire, quindi la libertà, al venire al mondo. La facoltà dell’azione, dice, “è ontologicamente radicata” nel “fatto della natalità”. In entrambe le dimensioni – l’agire e la natalità – ritroviamo non a caso una costitutiva “novità”, un costitutivo essere insieme agli altri (non si nasce, né si agisce da soli), qualcosa che implica l’accettazione della realtà nella quale siamo e insieme la fiducia, la speranza nel futuro. Se un grande pensatore come Hegel aveva detto che l’ora della nostra nascita coincide con l’ora della nostra morte, la Arendt si ribella a questa mestizia, che era un po’ la stessa del suo maestro Heidegger. A suo avviso, “la nascita e la morte di esseri umani non sono semplici eventi naturali”; avvengono in un mondo dove vivono altri uomini; un mondo che acquista significato grazie alle loro azioni e ai loro discorsi; un mondo che per questo è sempre aperto alla novità. Con la creazione dell’uomo, dice la Arendt, “il principio del cominciamento entrò nel mondo stesso, e questo, naturalmente è solo un altro modo di dire che il principio della libertà fu creato quando fu creato l’uomo”. Initium … ergo ut esset, creatus est homo, ante quem nullus fuit, scriveva Agostino nel suo De civitate Dei, un autore a lei molto caro. E proprio perché siamo initium, nuovi venuti, iniziatori, per virtù di nascita che siamo indotti ad agire. Come la Arendt scriverà nella sua opera postuma La vita della mente, “ogni uomo, creato come una individualità, costituisce un nuovo inizio in virtù della sua nascita; se Agostino avesse tratto tutte le conseguenze di queste speculazioni, avrebbe definito gli uomini non, al modo dei Greci come mortali, ma piuttosto come coloro che nascono”. Diciamo pure, coloro che grazie alla nascita e alla libertà fanno sempre nuove tutte le cose. Il contrario del fluire sempre uguale della natura, ma anche delle società totalitarie, le quali, non a caso, secondo la Arendt hanno uno dei loro tratti più caratteristici nella “mobilitazione”. Gli individui vengono mobilitati in continuazione, per impedire loro che possano identificarsi in qualcosa di stabile; vengono spinti nell’anonimato della pura singolarità per rimuovere l’idea di un mondo “comune”, di un ordine oggettivo delle cose, a cui ispirare le azioni e i discorsi, diciamo pure la libertà. Non si può essere liberi in solitudine. Come si legge in Le origini del totalitarismo, “Il suddito ideale del regime totalitario non è il comunista convinto o il nazista convinto, ma l’individuo per il quale la distinzione fra realtà e finzione, fra vero e falso non esiste più”. Credo che nella cosiddetta èra digitale certi temi siano più attuali che mai.