Ansa

Una questione di creazione

Una Milano da vivere

Ubaldo Casotto

Dal cucchiaio al grattacielo. L’idea di città di Gio Ponti, che amava il popolo e odiava le “case popolari”. Chiamava gli abitanti “abitatori”, “quasi che fossero essi stessi elementi architettonici, parti necessarie degli edifici". E sognava una metropoli fatta di quartieri, non un centro assediato da periferie

Premessa

Poche cose sono irritanti come una premessa. Epperò qui si impone. Non sono architetto, conosco Gio Ponti per aver letto molta roba sua e su di lui. Soprattutto ho dato retta a un suo consiglio: lui amava dire che l’architettura deve essere peripatetica, e che per apprezzarla non basta guardarla ma bisogna camminarci dentro. Soltanto a Milano restano trentasei sue architetture tuttora visibili. Basta farsi una camminata in città: case, palazzi per uffici, un grattacielo, università, chiese. A Taranto c’è una cattedrale leggendaria, sparsi per il mondo ci sono ville, musei, centri commerciali. La sua idea era quella di realizzare una città bella per tutti, animato da una profonda coscienza sociale e da un’idea di popolo e di persona che emerge dai suoi progetti. Chiamava gli abitanti “abitatori”, “quasi che fossero essi stessi elementi architettonici, parti necessarie degli edifici, indispensabili elementi catalizzatori per rendere le architetture vere e vive”, come dice suo nipote Salvatore Licitra.

In virtù di questa concezione globale dell’architettura, che lui considerava un’arte (“gli ingegneri fanno prototipi gli architetti fanno monotipi”) Gio Ponti ha messo in essere lo slogan di un altro grande architetto, Ernesto Nathan Rogers: “Dal cucchiaio alla città” e ha disegnato e progettato ceramiche, sanitari per il bagno, sedie, mobili… fino a quello che è stato per decenni il più alto grattacielo d’Europa in cemento armato, il Pirellone. Guardando il suo “diamante”, commentava: “Picasso dice che se si è giovani lo si è per sempre. Questo è nato giovane e non invecchierà”.

Non amava i razionalisti e i loro progetti precostituiti. “Procedeva per incontri”, come ha detto sua figlia Lisa. Sosteneva che “idee veramente originali non esistono… si dice ‘mi viene’ un’idea, non ‘creo’ un’idea: inventare vuol dire etimologicamente trovare, non creare. Infatti “le idee ci visitano sempre di notte, sono grazie ricevute”. Però “la fantasia è lucida e precisa come i sogni: si sbaglia quando si dice d’uno svagato, o d’un impreciso che è un sognatore. I sognatori veri sognano preciso”.

Maurizio Cecchetti ha scritto: “Chi considera Gio Ponti un architetto borghese non ha compreso la sua libertà creativa, che lo rende più vicino al popolo che all’élite”. Scrivere oggi di Gio Ponti è fare passatismo? Era un conservatore o un innovatore? Per lui, che amava molto Palladio e Borromini, il rispetto della tradizione passa dall’innovazione di cui l’architetto si fa promotore rispetto ai nuovi compiti che, anche in materia urbanistica, la storia propone. “Essere conservatori in architettura vuol dire saper conservare quella energia per la quale le più vive e belle città architettoniche (Venezia) si trasformano continuamente”. Vale la pena rileggerlo. Soprattutto a Milano. Finisce qui la premessa. D’ora in poi sono tutte parole di Gio Ponti. Un collage al quale mi sono permesso di aggiungere brevi inserti per collegare un argomento all’altro e piccole parafrasi in alcuni passaggi.

 

Sogno una città fatta dai miei colleghi architetti. Non una città di case basse e un grattacielo qui e uno là, un altro là e un altro ancora là, sarebbe come una bocca con qualche dente più alto e qualcuno più basso. I grattacieli vanno bene se sono un po’ vicini l’uno all’altro come delle isole, se formano un paesaggio con le nuvole, il cielo e altre case basse. Questo che dico non è un sogno, dico ciò che sarà in futuro. [A Milano gli architetti hanno un compito specifico.] Le altre città hanno delle colline, come Roma, come Firenze, come Torino, hanno il mare come Genova… Napoli ha il mare, le isole e pure il Vesuvio. Dio ha aiutato molto la bellezza di queste città, ma per Milano Dio non ha fatto niente, quindi sta a noi fare in modo che Milano sia una bella città: è una questione di creazione, ecco perché gli architetti che amano molto Milano e i milanesi non fanno che sognare di poter realizzare, di creare una bella città, perché senza di loro e senza i milanesi Dio è assente.

 

Come ha scritto John Robert Furneaux Jordan sull’Observer, Milano è la cosa più italiana d’Italia (essendo l’Italia fatta per metà da Dio e metà dagli architetti) perché partecipa della vera tradizione, la quale significa “far cose nuove in modo nuovo (come s’han da fare se esse sono nuove) facendole bene come le fecero cinquecento anni fa”. Ecco, nella modernità audace, il vero ritorno alla tradizione vera! Occorre dare un senso alla nostra architettura, al nostro lavoro. E questo senso non può essere che sociale. L’architettura moderna ha una vocazione sociale. L’architettura deve servire la felicità e le esigenze degli uomini sul piano della loro vita. C’è una bellissima parola degli spagnoli per dire casa, abitazione: vivienda. La vera bellezza di una casa sta nella felicità di chi l’abita: non nel disegno dell’architetto. E la città ideale è quella la cui immagine sia confortevole agli occhi e alla vita. Perché l’architettura non ha attributi, tutto ha una destinazione sociale nella civiltà, anche il bel monumento.

 

Allora l’architettura moderna non si vuol risolvere più, né esaurire, in dibattiti teorici e proclamazioni di diritti e doveri ed eguaglianze, ma si vuol risolvere in condizioni concrete di esistenza civile degli uomini: non si esaurisce nel dibattere e proclamare, per fare un esempio, il diritto “alla casa per ciascuno”, ma vuole identificare quel diritto nella costruzione vera e propria della casa (bella). L’edilizia non è un atto privato e transitorio ma è un atto pubblico che corrisponde a un decoro pubblico e durevole, e a un’estetica: le facciate sono le pareti della strada e della piazza… l’edilizia privata va intesa come un contributo all’ordine dell’estetica della città. L’urbanistica, allora, ha per oggetto le condizioni della vita dell’uomo, dovunque. Un regolamento edilizio non deve essere concepito come una raccolta di norme tecnico-burocratiche da seguire, ma come uno strumento per la bellezza della città. Il bello è la vera funzionalità. Serve un’edilizia di tale civiltà da identificarsi con un’abitazione che abbia requisiti civili a portata di tutti, e non sia più dunque popolare ma sia edilizia civile. Che cos’è questa idea diffusa che per il popolo (come se tutti assieme non gli appartenessimo e non lo componessimo) non sia il caso di architettare, ma sia sufficiente fornire abitazione, in casamenti formati dalla successione, secondo necessità, di un unico elemento ripetuto. Questo concetto limitativo, restrittivo, è antisociale: noi al popolo dobbiamo dare tutto, al popolo vanno cioè dedicate delle architetture, non delle fette di architettura. Le case per il popolo, la qualità per il popolo, non la roba “popolare”.

 

Il mio modello sociale è la città storica. Sono contro le “città sbagliate”, contro lo sviluppo anulare attorno al vecchio centro, contro l’azzonamento e i quartieri operai che distruggono ogni armonia fra gli strati sociali, classificando in masse gli uomini. Immagino nuovi quartieri misti, nuove armoniose città minori, piccole città dove l’abitazione è armonicamente mista di tutte le classi sociali e il professionista vive accanto al piccolo artigiano. E poi il verde. Un giardino, la natura, sono il completamento ideale dell’architettura. L’architettura ha bisogno del tempo e della pioggia e del sole e soprattutto del crescere degli alberi, delle erbe, dei rampicanti per essere quale è stata immaginata. Non penso a borghesi “città-giardino”, ma a parchi abitati da un popolo. Per il nuovo quartiere di corso Sempione propongo un grande viale ad arco fiancheggiato da alti edifici emergenti dal verde, le abitazioni sono immerse nel verde di un parco. E non basta il verde, ci vuole il colore. L’uso forte del colore… dovrebbe essere un’esigenza della costruzione popolare. Andate a vedere certi quartieri grigi; essi denunciano una tristezza, una miseria che pare effettivamente significare che per questa povera gente non s’ha nemmeno da pensare a dare la gratuita gioia del colore.

 

Perché, come si dice, l’occhio vuole la sua parte. Prima si disegna e poi si misura: la misura giusta, quella dell’arte… è esatta per l’occhio e non per il metro: è una dimensione e non una misura. Si dice volgarmente “ad occhio” per dire “approssimativamente”: ma è un errore; la vera esattezza, anzi l’unica è proprio questa dell’occhio. Pensate a un ospedale. L’architettura di un ospedale deve essere espressione di assistenza umana, non solo di assistenza tecnico-medico chirurgica; ma non si deve vedere. Tecnicamente sia pure un ospedale una grande “machine à guérir” (speriamo non “à mourir”). I muri, i colori, i mobili, le stoffe le belle figure sulle pareti, gli oggetti, i legni confortino il malato nel dargli l’impressione che egli appartiene sempre alla vita. Uno non deve uscire da una clinica con la sensazione di averla scampata da quel luogo, ma con la gratitudine per quel luogo che gli ha ridato la salute; deve ringraziarne e ricordare i medici per la scienza e l’umanità loro, deve ringraziare e ricordare quelli che l’hanno assistito affettuosamente, e infine deve riconoscere che un architetto, anche lui, ha contribuito a dare un conforto umano alle giornate passate nella clinica; anche l’architetto è un terapeuta.

 

Oppure pensate ai luoghi di lavoro. Bisogna costruire belle fabbriche e gli uffici perfetti perché nel lavoro sia sempre onorato l’uomo. Onorare il lavoro dell’uomo implica definirne con esattezza lo spazio, il primo elemento modulare è infatti il tavolo da lavoro e lo spazio attorno a esso necessario a chi ci risiede, e le sedie, le pareti, le finiture, gli impianti, che sono a loro volta un elemento architettonico [come ben si vede nel progetto della Montecatini in cui mise in discussione i confini tradizionali dell’architettura, trasformando gli impianti stessi con veicoli di espressione estetica, Ponti sostiene di aver portato gli impianti della Montecatini “al massimo onore” liberandoli dal disprezzo estetico con cui finora erano stati trattati, ndr.] Ma una Città, una società umana, non è perfetta se non offre il luogo per il conforto della preghiera, per il segreto della speranza, per il colloquio con la nostra coscienza, che è il colloquio con Dio. Le chiese devono essere protettrici della preghiera, della speranza e dell’affanno degli uomini. Oggi è solo per la Chiesa che ancora esiste l’Individuo, che esiste l’uomo solo … essa lo valuta sempre come uomo, mai come strumento.

 

Ma c’è un equivoco: l’architettura religiosa non è una questione di architettura ma di religione. In Calabria, a Joppolo, vidi i contadini dar di bianco alle belle pitture della loro chiesa: cosa fate! – gridai – non sapete qual valore straordinario andate distruggendo! Non mi ascoltarono: mi giurarono tranquilli che quelle pitture le volevano “semplicemente” rifare e avrebbero saputo rifarle tanto belle come prima … loro non pittori? Le rifecero, essi, incolti, essi non pittori, essi non “artisti” – ecco la meravigliosa storia – altrettanto belle. Perché qui l’arte non c’entra, c’entra la religione; la religione appartiene al meraviglioso, e che essa faccia fare cose meravigliose è naturale, non è più meraviglioso. L’arte religiosa non è un fatto d’arte è un fatto di religione; anche gli ecclesiastici lo torneranno a capire, è un fatto di fede. Quel che hanno fatto i paesani di Joppolo con le loro figurazioni i pittori d’oggi non sarebbero riusciti: non ci credono. Edificare una chiesa ha anche da essere un fatto popolare. L’ideale è che ogni chiesa e più ancora la cattedrale sia un centro di opere di assistenza oltre che morale, anche spirituale in senso culturale.


All’inaugurazione della nuova cattedrale di Taranto Gio Ponti disse: “La Cattedrale non è in oggi finita, essa comincia oggi che si stacca da me; da oggi la sua presenza nella città sarà opera vostra se fede e fedeltà opereranno per renderla finalmente più bella; tutto comincia ogni giorno, ricomincia ogni giorno, rivive ogni giorno, è miracolo d’ogni giorno”.

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