Mostra ''GIO PONTI. Amare l'architettura'' al Maxxi di Roma 

Terrazzo

E Gio creò la sedia

Giampiero Mughini

In trattoria la prima idea della “Superleggera”. Gio Ponti, il lancio del “good design” italiano e la corrispondenza con Ico Parisi

Quando mi trovavo per lavoro dalle parti di Milano, tutte le volte che potevo facevo una deviazione per Como a far visita al mio grande amico Ico Parisi, l’architetto e designer nato a Palermo nel 1916 che nel 1925 si era trasferito con la sua famiglia a Como. Dove visse sino alla sua morte, il 9 dicembre 1996. Era come avere un tesoro da spendere ogni minuto che passavi con lui, uno che aveva debuttato ventenne col fotografare per il numero speciale di “Quadrante” la Casa del Fascio di Giuseppe Terragni inaugurata nel 1936. I suoi ricordi, i suoi racconti, i personaggi che aveva incontrato, le foto che aveva scattato. Una volta estrasse da un cassetto un mucchio di lettere che dagli Usa gli aveva spedito Gio Ponti, mi pare negli anni Cinquanta. Quel che le rendeva a loro modo eccezionali era il fatto che in coda a ciascuna lettera – mai molto lunghe, due o tre capoversi  – Ponti avesse apposto un ghirigoro, un segno grafico, le avesse insomma come personalizzate. Un indizio della sua generosità intellettuale, il fatto che non si risparmiasse nel rapporto con un amico pur alla fine di una dura giornata di lavoro (qualcuno dice che Ponti dormisse non più di quattro ore a notte). Quelle lettere Ico le ha poi donate a un museo modenese diretto dal suo amico Flaminio Gualdoni.

  
Un’altra volta Ico mi aveva raccontato di come era nata una delle sedie che fungono da marchio della creatività di Ponti, la mirabile “Superleggera” prodotta da Cassina a metà dei Cinquanta, quel sobrio capolavoro che tutto in una volta mette assieme forma, leggerezza, funzionalità. Era successo che Ponti fosse andato a mangiare in una trattoria qualsiasi, mi pare a Milano. Dov’erano arredi i più ovvi e i meno ricercati del mondo. Fatto è che si trovò perfettamente a suo agio sulla sedia della trattoria. Cominciò a tastarla come ad assicurarsi delle giunzioni di cui era fatto quel legno. Dopo di che chiese di andare in bagno dove prese appunti a segnarsi tutto. Il passaggio dal bagno agli impianti dell’azienda di Cesare Cassina fu obbligatorio seppure non rapido. I primi studi di questa sedia che è forse la più celebre dell’intera storia del design italiano risalgono all’inizio degli anni Cinquanta ma la sua versione definitiva è del 1956. Costava attorno alle cinquemila lire quando lo stipendio di mio nonno, che insegnava stenografia in un istituto tecnico, era di 50 mila lire al mese. Ponti su Domus la vantava genialmente così: “Io non mi contraddico quando dico che amo le sedie di Mollino: io le amo come ‘sedie di Mollino’, cioè come espressione di una personalità che va al di là – anzi che è sempre al di là delle sedie e di ogni cosa; mi capite? Quando invece penso alle sedie e basta, io penso alla sedia che ho fatto per Cassina, che non è la sedia ‘di Ponti’ ma è la sedia fatta da Ponti, come Ponti pensa la sedia. Fate tutti così; e come io non faccio il Mollino, per rispetto a Mollino; non mollineggiate: fate delle sedie anche migliori di questa mia, e che costino meno; renderete e un servizio prezioso a tutti, al consumatore, al produttore, ed alla intelligenza chiara dei problemi”. 

  

La sedia Leggera di Gio Ponti, esposta al MoMA di New York (ANSA/ ALESSANDRA BALDINI) 
   

Questa spettacolare dizione di Ponti, poche righe che fanno da trattato del design per come deve essere, stanno in un libro che ho appena comprato da un catalogo antiquario, il bellissimo “Gio Ponti. L’arte si innamora dell’industria”, curato dal capofila del design radicale Ugo La Pietra e pubblicato a Milano da Coliseum Editore nel 1988 (Ponti era morto nel 1979). Un libro immane nel documentare la portentosa creatività di Ponti lungo nientemeno che cinque decenni del Novecento, dagli anni Venti ai Settanta, una creatività che dal grattacielo alle maniglie delle porte non si è lasciato sfuggire nulla di ciò che pertiene all’uomo e al suo vivere. Il tutto accompagnato dalle testimonianze di chi lo ebbe collega, amico, compagno di lavoro: da Paolo De Poli a Bruno Munari, da Nanda Vigo ad Alessandro Mendini a Ico Parisi. Già ha qualcosa di sovrumano il fatto di essere stato un creatore originale sia negli anni Venti, quando stava dominando l’art déco, sia negli anni Settanta, quando i fautori del design radicale stavano facendo risuonare alta la loro voce. Sovrumana la sua agevolezza nel passare da un materiale all’altro, dai mobili in legno alle porcellane e alle maioliche della Richard-Ginori, o magari da una dimensione all’altra, dal grattacielo Pirelli agli smalti di piccolo formato che su suo disegno realizzava Paolo De Poli oppure alle posate da lui disegnate per Christofle o Arthur Krupp. Senza dimenticare il ruolo che Ponti ebbe da direttore di Domus, un ruolo sottolineato da Mendini nella sua testimonianza: “[Domus è stato] il dinamico monumento dello stile italiano […] il grande megafono, insieme alle Triennali, la chioccia di tutti gli artisti, i designers e gli architetti mediterranei, da Campigli a Fornasetti, da Fiume a Mollino. Proprio grazie a Domus è stato lanciato da Ponti il ‘good design’ italiano che tanto seguito ha avuto anche all’estero”.

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