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il libro

"Il loggionista impenitente" è una dichiarazione d'amore al melodramma (italiano e non)

Federico Freni

Un viaggio brillante nel melodramma attraverso lo sguardo ironico e affilato di Alberto Mattioli. Tra palcoscenici e retroscena, l’opera diventa specchio del nostro tempo

In tempi in cui l’assenza di pensiero alimenta inevitabilmente i retropensieri, ci sono serate in cui un gentiluomo deve prendere atto che le possibilità di dipanare matasse troppo intricate sono ridotte al minimo. In questi casi, esistono due rimedi: alternativamente, una tazza di tè, o un libro di P.G. Wodehouse. Ecco, io per sicurezza in quei momenti ricorro ad ambedue. Mi ritrovo così al Castello di Blandings, in compagnia di una nutrita schiera di personaggi, il cui tratto comune è una profonda, radicata, incrollabile, leggerezza. E fin qui, tutto bene. Solo che ogni volta che mi imbatto in Sir Galahad Threepwood (Gally per gli affezionati, fratello del nono conte, vero proprietario della bicocca), immancabilmente rivedo in lui Alberto Mattioli! È una condanna, credetemi. Ma non c’è nulla da fare, sono identificazioni inconsce contro cui poco o nulla si può. E così, l’altra sera, aperto il mio comfort book di Wodehouse, dopo pochi minuti ho notato sul comodino anche il nuovo “Il loggionista impenitente”, l’ultima fatica di Gally-Mattioli, appunto. E così ho mollato Blandings e sono atterrato nei teatri di tutta Italia (anzi, di tutta Europa), guidato da una penna corrosiva ma mai sgarbata. Il volume, neppure troppo esile, è un caleidoscopio sul teatro d’opera e sulle sue recenti applicazioni. Pregi e difetti, nessuno escluso. Senza troppi sconti, come nel secolare stile della casa.

 

Sono raccolti a sistema scritti tra loro eterogenei, figli di occasioni e tempi differenti. Ma, appunto, riorganizzati in un sistema che li rende non solo godibili, ma anche “attuali”, nonostante – come detto – alcuni di essi traggano origine da eventi o spettacoli di qualche tempo fa. Insomma, si va dai grandi personaggi del mondo dell’opera, alle recensioni di rappresentazioni interessanti, passando per polemiche che, nel tempo, hanno interessato il mondo del melodramma. Quel che stupisce, parafrasando l’autore, è che gli scritti di Mattioli riescono a parlarci di opera senza però chiuderci nella riserva indiana della cultura, senza sottrarci alle sfide della contemporaneità. Insomma in controluce (e talvolta in luce piena) c’è sempre la vita vera, al di là della singola performance, o dell’episodio che origina l’occasione. Lo sguardo non è mai limitato a casa nostra, perché il melodramma non è un fenomeno solo italiano. Anzi, oggi più che mai è all’estero che si sperimenta e si innova. E non a caso è lì che il pubblico medio viaggia sotto gli ottanta anni. Insomma, una lettura assai godibile, non necessariamente solo per gli amanti del genere. Ed ecco che così sono passate quasi due ore. La matassa che mi aveva portato prima a Wodehouse, e poi al nostro loggionista impenitente, non si è sciolta, ma io me ne vado comunque a letto con il sorriso e con una ritrovata dose di buonumore. Certo non è la soluzione di tutto, ma si sa, sorridere con frequenza evita perlomeno il formarsi delle rughe

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