Lampi di Gramsci
Il libro di Giuli e la domanda alla destra: “Con il potere che ci vuoi fare?”
“Urge una destra capace di affermare se stessa illuministicamente”, per farsi "moderna, matura e plurale", spiega il presidente della Fondazione Maxxi durante la presentazione di “Gramsci è vivo. Sillabario per un’egemonia contemporanea". Con lui anche Giuliano Ferrara, PIerluigi Battista e Sabrina Ferilli
Si presenta alla libreria Mondadori, quartiere Prati, il libro “Gramsci è vivo. Sillabario per un’egemonia contemporanea” (ed. Rizzoli) di Alessandro Giuli, presidente della Fondazione Maxxi, giornalista, scrittore, già condirettore di questo giornale, alla presenza di Giuliano Ferrara, il fondatore di questo giornale, di Pierluigi Battista, giornalista, scrittore e conduttore (e a lungo frequentatore di questo giornale) e di Sabrina Ferilli, attrice di chiara fede romana (nel senso della Roma, come Giuli) e gauchiste (nel senso della sinistra). Gramsci è vivo, dice il formidabile titolo (che ricorda a Battista anni – a vent’anni – di dibattito matto e disperatissimo sullo scrittore inteso come simbolo politico e intellettuale, e a Ferrara il giorno in cui, tanti anni fa, un esponente fin troppo zelante di una sezione Fgci nordica e di provincia andò da lui per chiedere se si potesse mai leggere “Gramsky in originale”).
Gramsci è vivo, dunque, ma ora la madre di tutte le sfide, scrive Giuli, si gioca a destra, a destra più che altrove, per “transitare dalla mentalità degli esclusi e dei ‘governati’ a una logica di sistema, che alla lettera significa ‘stare insieme’ e oltre la lettera vuol dire appunto autopercepirsi come una classe dirigente sorretta da una visione prospettica della società”. In altre parole: “Urge una destra capace di affermare se stessa illuministicamente”, per poter arrivare a dichiararsi “la più progressista tra i conservatori”, “disincagliarsi dalla caricatura mostrificante che gli odiatori cercano di cucirle addosso” e farsi “destra moderna, matura e plurale”, uscendo dal generico patriottismo. Pare facile. Intanto, quando entra Sabrina Ferilli, entra pure Arianna Meloni, fotografata forse quanto la Ferilli. Per il nostro fondatore e direttore emerito il libro “non è una sorpresa”, dopo 12 anni al Foglio con Giuli – che festeggiava il 21 aprile, Natale di Roma, e nutriva un amore per l’arcaico e altre passioni “efferate e nobilissime”. Non è una sorpresa il suo modo di affrontare il discorso sulla perdita di identità (a destra e a sinistra), in questa “situazione transgender”, dice Ferrara, in cui tutto è fluido e il libro di Giuli anche, manifesto “estetico e politico” da cui l’ideologia è bandita. Sabrina Ferilli, da “curiosa”, ha apprezzato del libro il fatto che “ponga tante domande”: “Oggi senza tante domande e dubbi non si può più vivere. Certo, nel momento in cui c’è da governare, un indirizzo lo devi dare: destra o sinistra, e non solo per i diritti civili”.
Battista torna sullo “scacco esistenziale” per uno che ha passato l’intera giovinezza a litigare su Gramsci, in epoca di gramsciologhi, “e poi va la destra al governo e arriva di nuovo Gramsci”. Si precipita – tutti – al cuore del discorso: l’egemonia culturale. “E però basta con le lamentele” sull’esclusione dai quartieri generali culturali, dice Battista rivolto alla destra. Arianna Meloni non muove neanche la testa. Approvano invece inclinando il capo sia Ferilli sia Giuli che riparte da Evola (in senso lato, dal suo precedente e più evoliano libro, edito da Einaudi con grande scandalo, nel 2007: “Il passo delle oche”). Poi sono passati gli anni, dice Giuli, ed è arrivata al governo un’altra generazione, quella di Atreju. “Non si può tornare a com’era prima”. Che ci vuoi fare con questo potere?, chiede lo scrittore alla destra e a se stesso. Ora la classe dirigente “deve gettare un ponte”. “Non lasciare sola la sinistra” che prima o poi risorgerà dalla situazione incresciosa in cui s’è cacciata con le sue mani. “Deve mediare nei luoghi della cultura, rinunciare al fatto di dover urlare come Vannacci”. E farsi classe dirigente davvero. Aprire, se vuole restare se stessa.
Intervista a Gabriele Lavia